Di Adolfo Tamburello
Napoli, 05 set. - La Cina era molto cambiata sotto il lungo regno di Qianlong. Prescindendo dall'impero le cui ultime più lontane annessioni nell'Asia centrale sembra poco incidessero sulla madrepatria cinese se non come colonie di popolamento per lo più forzato o di esilio coatto, la Cina veniva molto mutando per densità demografica, mobilità e migrazioni, con la crescente sinizzazione dei mancesi nella stessa Manciuria e quella delle popolazioni thai, miao, yao, tibeto-birmane del sud e del sud-ovest esposte alla colonizzazione intensiva o scalzate verso le aree più accidentate e spesso insorgenti in rivolte contro gli espropri e gli altri abusi di mercanti e usurai cinesi. Pure molte popolazioni Han vivevano sbandate per aver lasciato i luoghi nativi e con aspettative di vita ormai fuori della tradizione e delle norme fino ad allora seguite secondo i princìpi dell'inamobilità e della mutua responsabilità collettiva. La difesa dal brigantaggio riduceva a livello rurale l'insediamento sparso per il villaggio murato e il fortilizio signorile, la difesa dalla sopraffazione urbana acquartierava i parlanti lo stesso dialetto o gli accomunati dalla medesima fede religiosa.
Il buddhismo popolare risentiva dell'associazionismo dell'Islam e del cattolicesimo, e monaci spesso improvvisati promuovevano un confuso sincretismo di recente proposizione che lievitava sotterranei movimenti di rivolta guidati da "chiese", associazioni o sette (jiao, hui) che facevano perni di aggregazione la fede in un divino messianico per la restaurazione dell'idealizzato ordine antico o il credo nella perduta età dell'oro da recuperare. Non dunque movimenti rivoluzionari orientati verso un "moderno" o un nuovo da instaurare, ma un vecchio da far rivivere che al caso (quello specifico) poteva essere al motto fan Qing fu Ming, "abbattere i Qing e restaurare i Ming". Questo c'entrava poco col lealismo Ming dei primi Qing e su sollecitazione del quale gli stessi Qing avevano finito col muoversi come una dinastia continuativa dei Ming.
Kangxi e Yoncheng erano stati abbastanza tolleranti nei confronti delle reviviscenze eversive; non lo era Qianlong (che in cuor suo si riteneva una delle migliori incarnazioni Ming) e al solo indizio di una minaccia a lui o un'onta alla sua dinastia faceva seguire le pene e delegava le autorità periferiche a punire a loro giudizio i soli sospetti di sovversione. Dopo bastonate e torture rei confessi o innocenti sprovveduti erano decapitati; molti condannati alla gogna della canga o erano avviati verso l'Ili o la Mongolia e morivano di stenti lungo la strada. Un vasto ceto intellettuale o di soli copisti ed editori soffriva per l'Inquisizione letteraria che si era fatta aspra censura politica, e questa diffondeva timore fino al panico di usare una libera espressione, tenere un libro forse compromettente in casa, scrivere e pubblicare un testo; era forse questo panico a salvare negli ultimi anni Qianlong e la sua dinastia da una rivolta più estesa di quella del Loto Bianco con l'adesione a essa dei ceti più influenti che se ne fossero posti a guida.
Il giusto contenzioso mosso a Qianlong aveva forse come esponente non la miseria della popolazione che pure era tanta ma l'insicurezza di vita nello stato di violenza e di corruzione che sotto di lui e per oltre vent'anni con Heshen al suo fianco erano passate dalla corte alla burocrazia e alle forze militari delle bandiere e dei tutori dell'ordine pubblico. Non era tutta la macchina inceppata da addebitargli personalmente come non lo era il resto per quello che faceva, sì molto per quello che si asteneva dal fare. Qianlong era stato educato a essere in prima veste un alto militare mancese: con le armi si cimentava nella caccia; stratega a tavolino, eludeva la propria presenza in guerra; da monarca sollecito dei suoi sudditi compiva viaggi di ispezione ma non si affacciava sulle strade in sommossa. Lo si vedeva come un grande intellettuale con tempra d'artista, uomo morigerato, frugale nella vita giornaliera, attivo e operoso, mecenate magnanimo, amante della letteratura e delle arti e letterato-artista lui stesso: i meriti anche indiscussi lo dipingevano un perfetto sovrano gentiluomo confuciano, ma come monarca era descritto alla grande di routine: leggeva i cumuli di memoriali, li postillava minutamente, prendeva le irrevocabili decisioni sui provvedimenti che il ristretto Consiglio gli sottoponeva, ma non appare mai notizia che si soffermasse su un programma politico di vasto respiro che non fosse quello di dilatare l'impero. La sua visione politica pare fosse ferma al continente, e la facciata marittima della Cina la ignorava se non riguardo Canton sul cui regime commerciale riteneva d'aver pienamente assolto il suo compito sul piano giuridico e amministrativo fin dagli anni Sessanta. Nei trent'anni successivi non si era curato di creare un Ministero del Commercio che i nuovi traffici imponevano e soprattutto un Ministero della Marina con un'efficiente flotta navale di Stato ammodernata sotto il profilo tecnologico e d'armamento. Potremmo dire che non si fosse accorto dei tempi nuovi e fosse fermo nel credere di tenere la Cina pienamente salvaguardata dall'"aggressione" ancora pacifica dell'Occidente europeo in navigazione sui mari. Neppure contro la stessa pirateria cinese faceva intervenire mezzi e forze adeguate, e per le città costiere dava l'impressione che non si rendesse nemmeno conto dei guasti che le spoliazioni provocavano all'economia loro e del paese. C'è però da chiedersi se fosse informato di come stessero le cose e procedessero veloci gli eventi che destabilizzavano lo Stato.
Per gli storici Qianlong fu il principe dell'autocrazia Qing, ma viene il serio dubbio che in più occasioni fossero i suoi più stretti collaboratori a credere o farlo credere l'autocrate il cui ritratto si continua a dipingere. Gli davano false informazioni e testimonianze su battaglie immancabilmente vittoriose, le rivolte prontamente represse, le leggi rispettate, i suoi editti più che efficaci.
Sembra che Macartney non riuscisse a insegnargli che Tianjin era l'approdo più conveniente per Pechino che non quello di Canton, e a nulla fosse valso che Titsingh gli avesse portato da Canton tutti quei doni rotti seguendo le vie di terra, fiumi e canali. Nulla pare gli suggerisse neppure la sontuosa carrozza a tiro di cavalli che pure Macartney gli aveva portato e rimaneva in bella mostra a Palazzo senza fargli sfiorare la mente che non era più il tempo di portantine e palanchini.
Ma, ci domandiamo, è proprio vero che rimanesse disinformato di tutto o non piuttosto che avesse le mani legate o se le fosse legate lui stesso a pro del Tesoro della corona e magari di quello dello Stato? Poteva intervenire sul commercio estero e quello interno quando i grandi e potenti mercanti di sale monopolizzavano gran parte dei traffici e alcuni di loro gestivano la grande e piccola distribuzione? E perché la Cina e l'impero, che erano ormai produttori e manifatturieri d'oppio, ne prendevano a importare in quantitativi crescenti di contrabbando e i suoi editti di veto trovavano applicazione solo per qualche iniziativa (quando non infelice o non un alibi) di sparuti funzionari? E in quanto alle rotte marittime è proprio vero che Macarteney o Titsingh non gli insegnassero nulla o che troppi interessi precostituiti erano di impedimento ad abbandonare le vie d'acqua interne per quelle via mare? Restano tanti i punti della storia della Cina di Qianlong da approfondire, e se di certo la visione di un paese è in genere troppo angusta quando per farne la storia la lente si posa solo sul suo sovrano, figuriamoci quanto sia riduttivo e ingenuo per un immenso paese come la Cina (e l'impero che le era di contorno) concludere che dal 1736 al 1799 Qianlong ne fu solo lui l"autocrate" per di più "confuciano"!
05 SETTEMBRE 2017
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