Di Adolfo Tamburello
Napoli, 10 apr. - Yongzheng salì ufficialmente al trono l'8 febbraio 1723 come quarto dinasta Qing, terzo sovrano a Pechino. Succedeva al padre Kangxi deceduto il 22 dicembre dell'anno prima, data dalla quale aveva preso in mano immediatamente le redini del potere forte dell'appoggio che gli dava l'elemento militare col mongolo Longkodo a capo della guarnigione di Pechino e con l'autorità del fratellastro Yinxiang col quale era cresciuto e da cui continuava a ricevere incondizionato sostegno.
Le notizie contrastanti trapelate e circolate nelle circostanze della successione facevano passare Yongzheng alla storia da chi come usurpatore e da chi come sovrano legittimo nell'aspra querelle che Kangxi lo designasse o meno suo erede sul letto di morte due giorni prima di morire e non senza il diffuso sospetto che accelerasse addirittura il decesso del padre avvelenandolo.
Quartogenito di madre pure mancese, cresciuto come principe Yinzhen (1678-1735), aveva sicuramente meritato la crescente stima del padre a farlo erede del trono, benché di indole molto diversa da quella di lui, meno appassionato d'equitazione e di cacce, carattere più riservato e più ancora se possibile di lui impegnato negli studi. Si era distinto fin dall'adolescenza per l'attitudine alle lingue, la passione per il cinese, il talento per la calligrafia e la composizione calligrafica, l'amore per la cultura nei suoi più vari aspetti letterari, artistici, tecnici e scientifici. Salì progressivamente i gradini che lo abilitavano al trono svolgendo incarichi vari e si predispose nell'intimo dalla prima giovinezza a essere un giorno il regnante, col pieno supporto del citato Yinxiang che forse integrava le sue doti sul piano bellico e la strategia militare.
Visse a stretto fianco del genitore, lo seguì nei viaggi e nelle azioni di guerra, comandò con onore le truppe della sua bandiera vincente contro i mongoli di Dorghun, assunse con la collaborazione dello stesso Yinxiang la direzione di importanti affari civili specie nel meridione nell'emergenza delle disastrose inondazioni dello Yangzi e altri fiumi dal 1704. Svolse al meglio le operazioni di soccorso delle popolazioni colpite e di ripristino delle opere idrauliche per le colture agrarie e la navigabilità dei corsi d'acqua; fu amministratore e contabile corretto e severo delle spese e intransigente esattore di prelievi fiscali e contributi volontari (obtorto collo) dai più ricchi proprietari terrieri e imprenditori tra i più pronti e usi all'evasione.
Gran parte del popolo scongiurò fame e morte, mentre lui si attirò il livore dei ceti alti lesi nei privilegi e ostacolati negli abusi. Kangxi non poteva probabilmente contare su un migliore successore di lui fra i suoi figli, benché sembra gli mantenesse riserve per il suo temperamento impulsivo, l'inflessibilità e la durezza del carattere. Circolò anche la voce che in verità Kangxi puntasse come suo successore non tanto su di lui quanto sul figlio di lui Hongli (1711-1799), che vedeva crescere da bambino prodigio sotto la guida assidua del padre. Morendo nel 1722, lasciava il nipote in età di soli undici anni, e avrebbe pertanto designato al trono Yongzheng fiducioso che questi glielo avrebbe a sua volta trasmesso alla morte come in effetti avvenne con la successione a Qianlong (1735-1795).
Scelto come motto del regno qualcosa come "armoniosa, concorde rettitudine" (tale il significato del nome Yongzheng), il nuovo sovrano dovette avvalersi subito per il governo e il disbrigo degli affari civili e militari dei più solidali come dei meno ostili, compreso qualche altro fratello o fratellastro oltre al citato Yinxiang. Si affrettò a dimostrare quanto tenesse alla legittimità del potere anche per il domani del proprio regno stabilendo che la designazione dell'erede fosse da allora depositata per iscritto in uno scrigno sigillato da aprirsi ad avvenuto decesso del sovrano regnante. Si vuole che Kangxi avesse omesso di farlo dopo avere deposto nel 1712 il figlio Yinren che aveva in precedenza dichiarato suo "erede legittimo".
Asteniamoci per ora dall'effonderci su quanto si seppe e si sarebbe tramandato di Yongzheng a qualche anno dall'ascesa al trono e avrebbe dato ben qualche ragione alle riserve che aveva su di lui il genitore.
A calo del potere dei principi suoi fratelli e fratellastri che aspiravano al comando delle bandiere, sottrasse subito a loro ogni preteso diritto demandando la competenza della materia a un massimo organo ristretto di governo e disponendo che le nomine dovessero ricadere su ufficiali qualificati e non necessariamente su principi di sangue; rinnovava altresì i vertici della gestione imperiale in un ristretto organo di consulenza fatto di alcuni principi e alti funzionari che anticipava il ristretto Consiglio Interno o Gran Consiglio (junjichu) costituito poi formalmente sotto Qianlong.
A riprova dei legami di fedeltà che manteneva alla memoria del padre e alla continuità della sua linea politica, riproponeva ampliato nel 1724 il testo dell'Editto Sacro di Kangxi nella nuova versione dello Shengyu guangxun, imponendo alle magistrature periferiche di darne lettura pubblica due volte al mese e postillandolo con la condanna del cattolicesimo come dottrina eterodossa. Era stato evidentemente tutt'altro che insensibile al "Memoriale di Chen Mao" sul quale ci si è già intrattenuti e, come avremo modo prossimamente di dire riferendo della sua politica estera, teneva a dovuta distanza i ripetuti avvicinamenti delle potenze europee.
Nel 1726 faceva ultimare la pubblicazione voluta dal padre di quella che è oggi chiamata la "Grande Enciclopedia della civiltà cinese" ed è l'edizione digitalizzata del Gujin tushu jicheng, stampata allora in una monumentale edizione coi caratteri mobili di rame.
L'editoria anche come mezzo politico di elevazione culturale delle masse lo assorbiva con lo stesso continuativo impegno paterno e figurava fra le attività che con quelle di patrocinio delle arti e degli artigianati lo iscrivevano con massimo merito nella storia del suo regno. Sotto di lui, oltre un centinaio di artigiani ricevevano un nome a firma o a memoria delle loro opere, e alcuni vogliono che lo facesse su emulazione del Giappone che dall'antichità aveva annoverato ben pochi artigiani in anonimato al secolo.
Con tutte le altre città storiche che continuavano a fiorire nelle industrie e arti tradizionali e in quelle innovative su influssi europei e giapponesi (vetrarie, di lenti, specchi ecc.), Pechino diventava con lui sede di laboratori e opifici di alto prestigio e si confermava fra l'altro grande centro di stampa di opere buddhiste tibetane e mongole, rimanendo per tutto il secolo fiore all'occhiello della dinastia Qing col patrocinio accordato alle traduzioni di testi tibetani in mongolo e mancese. Nel favore concesso al lamaismo il sovrano interveniva con l'obiettiva valutazione politica dell'importanza che la religione aveva come credo di grande popolarità non solo nel Tibet ma fra mongoli e mancesi. Pur non essendo un devoto buddhista e tanto meno di quello tibetano (semmai molto simpatizzante del chan, su cui tanto scriveva), devolveva un proprio palazzo a tempio lamaista, mentre altri monasteri faceva edificare su modelli tibetani. Ben viva gli era la mira politica di legare sempre più il Tibet all'impero prefiggendosi di annetterlo con l'istituita residenza a Lhasa dei suoi amban, dopo le costose e cruente operazioni militari condotte contro gli Zungari da generali ai suoi ordini con esiti ancora incerti, che facevano decidere a una temporanea cessazione delle ostilità. Gli Zungari non soltanto continuavano a tenere in pugno gran parte del Tibet, ma minacciavano di estendere la propria influenza alle altre etnie minoritarie tibeto-birmane ai confini dei territori di conquista Qing. Su questi, comprensivi del Guangxi, Guizhou, Yunnan e Sichuan, Yongzheng disponeva di intensificarvi una colonizzazione forzata, promuovendovi l'immigrazione di coloni cinesi e sottraendone le gestioni dei territori ai capi tribali (tushu) per inglobarli non senza sanguinose rivolte nelle proprie amministrazioni provinciali e sedentarizzarne le popolazioni. Fra queste, di maggiore entità quelle dei Miao, Yao e Lolo.
Spostate le operazioni di guerra verso queste periferie occidentali e altre settentrionali dell'impero, comprese aree dell'attuale Mongolia esterna in effettiva o possibile intesa con gli Zungari, la Cina e la Manciuria godevano un periodo di pace e relativo benessere. Convinto del primato economico dell'agricoltura, sosteneva questa anche in aree mancesi e mongole verso cui pure favoriva un' immigrazione cinese lasciata in mano agli stessi capi delle bandiere. Agevolò i piccoli appezzamenti di sgravami fiscali e il contadinato con ausili tecnici, scuole serali e distribuzione di stampe di manuali, mentre specialmente nell'agricoltura di piantagione e delle grandi tenute forzò l'incremento delle varietà delle colture sia tradizionali sia europee e americane (tè, cotone, canna da zucchero, granturco, arachide, patata) destinate all'industria conserviera e al commercio. I proventi fecero dell'agricoltura cinese un'economia portante che figurò riconosciuta dagli stessi europei ai vertici di quella coeva mondiale e con un contadinato in migliori condizioni di vita. In Europa presero a diffondersi i movimenti fisiocratici in opposizione o a riequilibrio dei più spinti mercantilismi (Quesnay, 1694-1774).
Debole restava l'utilizzazione in ambiente sia urbano che rurale della forza animale (persino dei cavalli di cui i mancesi notoriamente abbondavano) e, connesse con l'agricoltura e le opere edili poco sviluppata la meccanizzazione e scarso l'uso di macchinari pesanti, col continuativo dispendio di lavoro a braccia assorbito dall'incremento demografico a livello rurale, ma permanenti difficoltà per i trasporti a brevi e lunghe distanze e la commercializzazione al minuto e all'ingrosso delle derrate.
I prelievi alla produzione rimanevano in mano a grosse corporazioni mercantili (fra le più potenti quelle del sale) le cui rendite fra l'altro l'evasione fiscale tendeva a marginalizzare per le entrate dello Stato, dettando per di più i prezzi di mercato sia delle derrate che dei manufatti, e tutto ciò mentre crescevano i cespiti commerciali coi volumi degli scambi interni e quelli del mercato estero che più soggiacevano al contrabbando. In questo i traffici dell'oppio importato dalle Compagnie delle Indie e mercanti privati europei gli destavano già apprensione sia per l'esborso d'argento, oro e rame e sia per l'uso che se ne diffondeva come droga mescolata al tabacco (il madak) con danni alla salute pubblica già ampiamente riscontrabili fra intellettuali, professionisti e funzionariato statale. Yongzheng ne proibiva l'importazione nel 1729 e ancora nel 1731, ma i suoi ordini rimanevano lettera morta a dispetto pure dei duri provvedimenti che prendeva a carico di singoli burocrati.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
10 APRILE 2017
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