di Adolfo Tamburello*
Napoli, 22 giu . - Il periodo che va da circa il 900 a tutto il 1300, cioè dalla fine dell’epoca Tang (618-907) alla restaurazione nazionale dei Ming (date tradizionali 1368-1644) vide porzioni sempre maggiori della Cina occupate da popolazioni barbariche: quelle kitan dei Liao (907-1125), i tanguti degli Xi Xia (990-1227), i jurchen dei Jin (1115-1234), e infine i mongoli gengiscanidi che con Kubilai Khan ultimarono l’occupazione della Cina e deposero i Song (960-1279). Costoro avevano rappresentato dopo le “Cinque Dinastie e i Dieci regni” (907-960) la continuità nazionale cinese, che sembrava fosse andata definitivamente dissolta con la dinastia Yuan (1279-1368).
Dell’archeologia di quei secoli ben poco si conosceva fino al Novecento inoltrato. L’attenzione degli studiosi, rimasta puntata appunto sulla continuità culturale cinese, aveva comprensibilmente privilegiato l’archeologia Song lasciando molti vuoti sulle aree rimaste o divenute all’epoca eccentriche alla “Cina”. La copertura di quei vuoti, intensificata con scavi capillari e quanto possibile sistematici soprattutto dagli anni Ottanta-Novanta, ha per certi versi restituito conoscenze inaspettate, tipo il numero impressionante di città fondate e mantenute in vita in quelle epoche, e non città di mercato, aperte, ma città murate fino a tre cinte. La muratura delle città era ben nota per le capitali, meno per i centri urbani anche di remote periferie, dei quali non era spesso conosciuta alcuna documentazione scritta.
Nelle province del Jiling e Liaoning sono state scoperte centinaia di città Liao e Jin, compresa la capitale Jin (Shangjin) nella provincia di Heilongjang. Altre città Liao e Jin sono state esplorate nella Mongolia Interna, mentre nello Yunnan sono state messe in luce le località archeologiche del regno di Dali (937-1253). Centinaia pure le città Yuan di nuova scoperta, alcune capitali sussidiarie o residenze temporanee di sovrani.
Sorprendente è apparsa la precoce recezione del modello di vita urbana cinese da parte delle elite barbariche, come altrettanto sorprendente è sembrata la condivisione del modello produttivo cinese fatto d’agricoltura e industrie di base coi centri minerari e fornaci per la lavorazione dei metalli e delle argille per le terrecotte (mattoni, tegole, fogge coroplastiche, prodotti vasari e stoviglie in genere). La lavorazione dei metalli si estendeva dalla siderurgia alla metallurgia in lega e all’oreficeria.
Nel complesso, gli estremi di una sinizzazione anche in ambiti di industrie, artigianati e manifatture che investiva regioni come l’odierna Manciuria, la Mongolia interna, l’Ovest fino al Tibet e, nel Sud, Dali fino all’odierno settentrione del Vietnam. L’impero Ming si sarebbe trovato una Cina ben più ampia di quella ereditata dai soli Song, alimentando oggi l’interrogativo se fosse esso o il successivo impero Qing (1644-1911), se non responsabili, testimoni di una restituzione di alcune di quelle terre urbanizzate a campi o addirittura a pascoli e allevamenti.
I reperti hanno riguardato strutture urbane sia di destinazione civile che religiosa, le prime come bastioni di torri, tratti di cinte, mura e pareti di palazzi. Molti i dati dell’ingegneria idraulica come condutture, chiuse, cisterne, ponti e moli per gli imbarcaderi. Lungo canali e fiumi sono stati rintracciati i sentieri per il tiro delle imbarcazioni con le funi.
L’archeologia religiosa riguarda altari sacrificali per culti di antenati, sacrari e santuari taoisti o di religiosità sincretistica taoista-buddhista e in prevalenza templi e monasteri buddhisti di culto lamaistico, in particolare pietre di fondazione di pagode circolari o poligonali, simili a quelle che pure i Song erano venuti adottando su influenze tibetane e nepalesi.
La mutuazione del modello cinese è stata confermata estesamente dall’archeologia funeraria e dalla quantità della documentazione epigrafica che ha consentito l’identificazione delle sepolture. Impressionante anche in questo caso il numero, a migliaia, delle tombe a inumazione per lo più sotterranee e con sarcofagi lignei o di pietra a seconda del rango dei defunti. Le più sontuose sono apparse quelle composte di camere singole o multiple con pareti rivestite di lastre e rilievi o da intonaci dipinti su repertori decorativi sacri e profani, comprensivi questi ultimi di scene di vita quotidiana, feste, giochi, danze e soprattutto spettacoli: un riflesso più che a testimonianza di assetti di vita ancora tribali, di permanente popolarità del folclore e anche del posto rilevante che veniva assumendo lo spettacolo nella vita di quelle popolazioni e che culminava come ci è noto col teatro Yuan. Piena adesione anche al simbolismo cinese e ai suoi animali reali e fantastici (tigri, draghi, fenici).
L’archeologia relativa ai Song settentrionali (960-1127), ha concentrato molti lavori sotto i livelli dell’attuale Kaifeng ove a una profondità di una decina di metri sono state identificate due porte delle mura esterne della capitale Bianliang, nonché resti di fondazioni del palazzo e del parco imperiale e di altri palazzi adiacenti con i resti di mura che li recingevano. Reperti analoghi si sono avuti da altre città. Dell’archeologia funeraria gli scavi principali hanno riguardato i mausolei imperiali con le vicine cave di pietra da cui erano estratti i massi e le lastre per la loro elevazione e rivestimenti, nonché anche qui in stretta prossimità le fornaci per la cottura delle terrecotte edili.
Analoghi reperti per i Song meridionali (1127-1279). Prospezioni e scavi importanti hanno riguardato i livelli sottostanti l’odierna Hangzhou ove erano rimaste sepolte le rovine della loro capitale Lin’an.
Mancano ancora alle scoperte le tombe dei sovrani Yuan che, secondo le fonti, erano sepolti in località segrete della Mongolia.
Nel complesso una documentazione vastissima che ha arricchito enormemente il patrimonio della Cina di siti archeologici all’aperto, di parchi, musei e dai cui reperti si attende una riscrittura delle dinamiche storiche e storico-artistiche di quei tempi. Non solo, ma l’arricchimento del patrimonio museale è stato anche dato dall’archeologia subacquea con reperti da fondali fluviali, lacustri e marini: resti di scafi e soprattutto di preziosi carichi affondati in naufragi balzati alla cronaca in anni recenti. A un programma di recupero delle navi di Kubilai Khan affondate sulle coste giapponesi al suo secondo tentativo di invasione dell’arcipelago nel 1281 è impegnata anche una missione italiana.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
22 giugno 2015
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