Pechino, 11 feb. - La PRC "Equity Joint Venture Law" è stata emanata nel 1979 insieme ad altre leggi ritenute fondamentali dal governo cinese, che avviava il Paese verso la riforma e l'apertura dopo il disastro della Rivoluzione Culturale. Le altre leggi – entrate in vigore il primo gennaio 1980 – erano la Legge Penale e la Legge di Procedura Penale della RPC, nonché le leggi organiche che regolavano il funzionamento delle procure, dei parlamenti regionali e le loro elezioni, addirittura prima dell'emanazione della nuova Costituzione nel 1982.
La legge sulle Joint Ventures (JV) era breve e destinata a operare per numerosi anni in un sistema pressoché inesistente di diritto commerciale. Ad essa si sono aggiunti, verso la fine degli anni Ottanta e negli anni Novanta, i regolamenti applicativi, alcuni emendamenti e la legge sulle cosiddette "Cooperative (o Contractual) Joint Ventures". In quest'ultime, la divisione degli utili non é strettamente legata alla percentuale di conferimento di ciascun socio e, in taluni casi, può anche non essere registrata una nuova persona giuridica.
Sappiamo bene che, dopo un faticoso avvio, il sistema legale cinese si è sviluppato più o meno organicamente fino a coprire tutte le aree del diritto commerciale: societario, proprietà industriale, fallimentare, contrattuale, tributario, ecc. Eppure, chi fa business in Cina, ha tante "horror stories" – anche vissute in prima persona – da raccontare sulla vita e sulla morte delle "Joint Ventures". Quando a metà degli anni Novanta, fu finalmente emanata la legge sulla società ad intero capitale straniero, molti investitori hanno finalmente tirato un sospiro di sollievo, preferendo il "green field" alla gestione faticosa e lenta di un rapporto con un partner cinese.
Ed è vero che le "Joint Ventures" costituite verso alla fine degli anni Novanta hanno collezionato una serie di insuccessi, liti ed abbandoni, dai casi più eclatanti (Danone e Wa Ha Ha, chiuso poco tempo fa) fino alla miriade di progetti medio-piccoli che, una volta avviati, sono naufragati nello spazio senza gravità della galassia cinese. La legge sulle società ad intero capitale straniero e poi l'entrata della Cina nell'OMC, hanno sensibilmente ridotto i settori nei quali le "Joint Ventures" restano obbligatorie: il settore della distribuzione e della vendita al pubblico, ad esempio, stato aperto al completo investimento straniero nel 2004, mentre il settore di produzione di autoveicoli, quello dei trasporti, sono ancora legati alla struttura di JV.
Al di là della scarsa regolamentazione che ha finito per favorire i soci cinesi rispetto all'investitore straniero, le "Joint Ventures" degli anni Ottanta e Novanta hanno risentito sia della mutevole situazione del mercato cinese - che ha portato all'obsolescenza di alcuni progetti e di un certo tipo di piano dell'investimento in brevissimo tempo, ma anche alla mutata percezione del business da parte del socio cinese che ha visto moltiplicarsi le possibilità di crescere, con o senza stranieri –, sia della riforma del sistema delle aziende di stato, a partire dai primi anni Novanta. Gli investitori stranieri hanno visto soci cinesi cambiare idea sul business, o ancora trasformare i propri terreni industriali in aree edificabili per centri residenziali o shopping malls, oppure sparire semplicemente nel nulla, rimanendo spesso allo scuro di quanto stava accadendo nel Paese ed al partner.
Negli ultimi due-tre anni, le JVs sembrano essere tornate di moda: i partner cinesi sono più "internazionali", conoscono meglio il business, possono introdurre il socio straniero a un mercato di considerevoli proporzioni, hanno le "guanxi"; diciamocelo: l'acquisizione di una partecipazione in una società domestica cinese non è un'avventura facile.
Occorre però imparare dagli errori del passato, e cercare di gestire al meglio le opportunità di collaborazione. La normativa in vigore per le JVs è in parte obsoleta e soprattutto manca di una completa regolamentazione della governance societaria, che spesso comporta situazioni di stallo, molto complesse da risolvere. Il contratto e lo statuto sono pertanto da redigere con cura e attenzione, senza utilizzare gli "standard" spesso proposti (il cosiddetto standard predisposto a suo tempo dal MofCom è ad esempio piuttosto rudimentale ed obsoleto).
Taluni dei problemi del passato si ripresentano, con veste nuova ma complessità maggiori. La concreta ed efficace partecipazione al management dell'azienda, ad esempio, comporta per l'investitore straniero impegno e costi logistici e di risorse umane che non sempre il socio cinese vuole condividere. I temi ricorrenti sono poi quelli legati alla protezione della tecnologia e
Fondamentali – come ovunque tra soci - rimangono la comune condivisione di intenti, obiettivi e priorità, che si traducono anche a livello contrattuale con accordi sui tipi di prodotto, sui canali ed i mercati di distribuzione, e clausole che regolano eventuale concorrenza.
di Sara Marchetta
Sara Marchetta si è laureata in Lingua e Cultura cinese presso l'Università Ca'foscari di Venezia nel 1994, e successivamente ha frequentato un corso avanzato di giurisprudenza presso la Facoltà di Legge dell'Università di Pechino (1994-98). Nel 2002 si è inoltre laureata in Legge presso l'Università di Parma ed è attualmente membro del Bar Association di Piacenza. Dal 1997 al 2008 ha lavorato per Birindelli e Associati come managing partner dello studio di Pechino. Oggi Sara Marchetta è senior associate dello Studio Legale Chiomenti a Pechino. Diritto aziendale è la sua area di competenza. Madrelingua italiana, parla fluentemente inglese e cinese mandarino.
La rubrica "La parola all'esperto" ha un aggiornamento settimanale e ospita gli interventi di professionisti ed esperti italiani e cinesi che si alternano proponendo temi di approfondimento nelle varie aree di competenza, dall'economia alla finanza, dal diritto alla politica internazionale, dalla cultura a costume&società. Sara Marchetta cura per AgiChina24 la rubrica di Diritto.
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