Milano, 17 set. - Mi sono abituato a tutto, ho visto molti comportamenti strani: è molto difficile che qualcosa mi stupisca avendo oramai i capelli bianchi. Però una cosa mi stupisce ancora: la frequente incapacità - ancora oggi - da parte delle aziende italiane e dei loro vertici ad affrontare la Cina con apertura di vedute e con coraggio, basato su analisi razionale e solida informazione. E' un po' come nelle malattie neurologiche: il paziente sembra sano, sa fare e dire tutto, però c'è un punto oscuro. Ad esempio una certa tipologia di parole, e solo quelle, non riesce a dirle, oppure un certo tipo di gesti, e solo quelli, non riesce a farli. Per moltissime aziende italiane questo punto oscuro è la Cina.
Professionalmente è da oltre trent'anni che assisto aziende italiane, europee, statunitensi e cinesi nel mettere a punto e ad implementare le migliori strategie di internazionalizzazione. Ho visto – per fortuna spesso – aziende che sanno fare scelte solide, a volte brillanti, a volte addirittura visionarie. Ho visto a volte commettere errori gravi: errori - intendo - che fin dall'inizio apparivano come errori, almeno ai miei occhi. Ho visto ovviamente decidere strategie giuste che poi crollavano per colpa di esecuzioni pasticciate o addirittura incompetenti. In tutti questi casi le aziende dei vari paesi mostrano comportamenti diversi, ma non – statisticamente parlando – più o meno efficaci. In altre parole, in generale, le aziende italiane sbagliano – statisticamente – tanto quanto le aziende statunitensi o europee. In un caso però no. Le aziende italiane infatti di fronte alla Cina credo abbiano sbagliato e tuttora sbaglino con frequenza maggiore di quelle degli altri paesi.
Gli errori che commettono sono grosso modo riconducibili a quattro tipi: mancanza di comprensione seria della realtà cinese, interpretazione della realtà cinese sulla base di pregiudizi culturali, traslazione acritica alla realtà cinese di modelli di comportamento di successo ottenuto in altre realtà, strategie basate sui costi invece che sui ricavi. E' qui fuori luogo fare un esame dettagliato e completo di queste sindromi. Voglio però commentarne un paio per cercare poi di trarre delle considerazioni che spero utili a chi opera o vuole operare con la Cina. La mancanza di comprensione seria della realtà cinese è una delle sindromi più diffuse. Qualunque mercato straniero richiede di essere ben capito prima di decidere le modalità di ingresso o di crescita. A maggior ragione lo richiede un mercato così profondamente diverso come quello cinese. La diversità di questo Paese infatti, rispetto a quelli occidentali, è talmente forte che non si può affrontarlo sulla base della nostra esperienza "abituale". La stessa affermazione "La Cina è diversa" non si riesce ad apprezzarla completamente nella sua devastante intensità fintanto che non si procede ad una disanima dettagliata delle motivazioni di tale diversità. Per questi motivi anche solo per decidere se e come valutare tale mercato occorre avere – anche a livello di vertice aziendale - una comprensione non banale della cultura e della economia cinese.
Questo requisito è apparentemente non necessario quando il vertice aziendale valuta mercati "diversi" come gli Stati Uniti, la Russia, l'India, il Brasile, ecc. In realtà la nostra formazione "occidentale" ci ha già dato gli strumenti concettuali di base sufficienti per tali analisi (si noti che l'India è l'origine della lingua e della cultura indoeuropea e quindi molto più vicina a noi di quanto normalmente si pensi). Per la Cina no: non siamo naturalmente equipaggiati per comprenderla facilmente. Le aziende italiane invece tendono in genere a ridurre questa attività di comprensione (forse anche per ridurre i costi) e a basarsi più sull'intuizione del capo azienda che – dalla propria esperienza – interpreta da pochi segni, a suo parere altamente significanti, un'intera situazione. Questo metodo è rischioso, ma in mercati con culture "simili" alla nostra può avere una sua validità. In Cina conduce invece quasi sempre a dolorosissime facciate. Sono convinto addirittura che il vertice aziendale non dovrebbe affrontare decisioni strategiche sulla Cina senza avere prima capito di dover investire del tempo per "mettersi in grado" di prendere decisioni.
L'interpretazione della realtà cinese sulla base di pregiudizi culturali insieme, spesso, alla traslazione acritica a quella realtà di modelli di comportamento di successo ottenuto (o visto) in altre realtà sono invece forse le sindromi più gravi. Si manifestano in relazione a molte attività della vita aziendale: l'interpretazione del comportamento del consumatore o del cliente, la percezione della psicologia dei propri colleghi, le relazioni con il personale, la conduzione delle negoziazioni commerciali, la scelta delle strategie di sviluppo, ecc. Un esempio paradigmatico è l'atteggiamento verso le joint venture. Da quando la Cina si è aperta al mondo si è diffusa la convinzione, in Italia più che altrove, che l'unico modo per operare in quel Paese sia attraverso le joint venture. Questa convinzione era inizialmente generata dal fatto che la prima legge del Governo Cinese per gli investimenti esteri parlava esplicitamente di joint venture (anche se una lettura attenta della legge permetteva anche l'investimento totale straniero). Però già dalla metà degli anni ottanta era chiaro che – tranne che nei settori "chiusi" perché ritenuti di interesse strategico nazionale – era possibile fare società a capitale interamente straniero. Le aziende italiane hanno invece fatto e fanno molta più fatica delle consorelle europee e statunitensi a interiorizzare questo fatto. Infatti le società italiane, pur sapendo che le joint venture sono difficili e rischiose, tendono a considerarle come l'unico strumento per operare in Cina, soprattutto se devono produrre in loco.
Le motivazioni di questa difficoltà sono molteplici: la paura (anche di grandi aziende) ad operare "da soli" in un contesto così difficile, la convinzione che solo un partner cinese possa operare in quel contesto, la convinzione che un partner ben scelto abbia lo stesso interesse a sviluppare insieme un'attività. Tutte queste motivazioni sono essenzialmente sbagliate anche se basate sull'esperienza "in occidente". E' vero che la Cina è difficile, ma "cinesizzarsi" acquisendo risorse valide locali e imparando a capire la cultura di questo paese è spesso (forse quasi sempre) più facile, meno rischioso e alla fine meno costoso che operare tramite un partner locale che ha un suo potere e soprattutto dei suoi obiettivi spesso in conflitto con quelli del partner straniero. E sono proprio questi obiettivi del partner, la "sua agenda" come si usa dire, che rendono quasi sempre problematica la relazione con lui. Basta fare questa considerazione: più il partner è capace e forte, tanto più userà la sua bravura per realizzare i suoi obiettivi (acquisire il know how e svilupparsi in proprio) a scapito del partner straniero; al contrario più è incompetente e debole, tanto più sarà un problema e un costo. Un'ultima preoccupante sindrome è quella di basare le proprie strategie (in Cina in questo caso) sul costo invece che sui ricavi. Questo significa progettare la propria strategia in modo da spendere il meno possibile, senza invece valutare quali ricavi potrebbe portare la Cina e tarare di conseguenza gli investimenti per entrarvi in funzione del ritorno atteso.
Se questo approccio cauto e saggio ha senso in mercati di dimensioni limitate (anche se condanna l'azienda a crescite lentissime), diventa molto pericoloso in un mercato come la Cina. In questo modo infatti non si riesce a sfruttare appieno la dimensione del Paese (e questo è un costo di opportunità!) e soprattutto si rischia di non raggiungere in fretta quella massa critica che è necessaria – come ad esempio la presenza in tempi brevi sulla maggioranza delle aree importanti – per evitare di essere marginalizzati da concorrenti stranieri o locali.
Perché questo accade agli italiani?
Credo che le cause siano molteplici: il nanismo delle aziende italiane, l'insufficiente conoscenza della realtà della Cina, il persistere di valori "contadini" di cautela e avversione al rischio (non si dimentichi che nel 1945 l'Italia era un paese essenzialmente agricolo), la scarsa capacità di gestire organizzazioni "managerializzate", ecc. Tutto questo porta però a far emergere chiaramente una difficoltà di fondo: la mancanza di coraggio a guardare in faccia alla Cina, a capire che cosa è e che cosa significa per lo sviluppo dell'economia e della civiltà mondiale, a progettare ruoli e strategie per le nostre aziende che siano adeguate a questo "grande" scenario.
di Paolo Borzatta
Paolo Borzatta è Senior Partner di The European House-Ambrosetti
La rubrica "La parola all'esperto" ha un aggiornamento settimanale e ospita gli interventi di professionisti ed esperti italiani e cinesi che si alternano proponendo temi di approfondimento nelle varie aree di competenza, dall'economia alla finanza, dal diritto alla politica internazionale, dalla cultura a costume&società. Paolo Borzatta cura per AgiChina24 la rubrica di economia.
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