di Adolfo Tamburello*
Napoli, 4 dic.- Sotto le dinastie Sui (589-618) e Tang (618-907), con la Cina ricompresa in un vastissimo impero, il buddhismo diventò la religione di maggior seguito e quella che informò a lungo persino i rituali di stato, col trono che giungeva a proclamarsi eletto a difesa della fede buddhista. L’elaborazione che maturò allora il buddhismo e la diffusione e l’incidenza sul piano religioso-culturale che ne ebbe fuori della stessa Cina furono fattori che contribuirono ulteriormente a unificare un Estremo Oriente continentale e insulare (Cina, Vietnam, Corea e Giappone) distinguendolo dal resto dell’Asia Orientale.
Nel primo periodo dalla Cina monaci-pellegrini si incamminavano per le vie dell’Asia centrale o navigavano in direzione dell’India lungo le rotte meridionali, per visitare i luoghi d’origine e della prima propagazione del buddhismo e ricercarvi testi religiosi e reliquie. Fra i monaci viaggiatori più insigni, ricordiamo Faxian, Xuanzang e Ijing, i quali al ritorno fondarono nuovi centri monastici e scrissero anche dei loro viaggi. L’opera di questi pellegrini chiudeva il ciclo inaugurato dai missionari indiani e centroasiatici giunti in Cina per la prima propagazione del buddhismo e portava nuovi elementi della cultura e delle scienze dell’India.
I monasteri funzionavano come centri di studi religiosi e scientifici, di dispensari farmaceutici, di cure ospedaliere. Erano conosciute le più aggiornate esperienze dell’alchimia e della medicina: persino la chirurgia indiana vi era praticata. Influenze indiane sulle scienze astrologiche e matematiche sopraggiungevano con le traduzioni di testi pali, sanscriti e in lingue centroasiatiche, cui si dedicavano monaci e intellettuali che collaudavano le trascrizioni fonetiche del cinese, ne arricchivano il lessico, apprestavano dizionari e manuali, formavano altresì uno stile a cavallo fra il cinese classico e quello volgare che serviva anche per portare il buddhismo all’esterno delle classi colte mentre incideva sul cinese letterario. Per la Corea e il Giappone era l’incentivo all’elaborazione delle scritture alfabetiche delle loro lingue.
Diffusosi in Cina con elementi sia del Piccolo sia del Grande Veicolo, il buddhismo cinese si sviluppava attraverso oltre una decina di scuole che privilegiavano vari testi: alcune i sutra, altre il Vinaya, altre ancora l’Abhidharma. Fra i sutra, le preferenze andavano all’Avatamsaka, il cosiddetto “Sutra della Ghirlanda”, al Saddharma-pundarika, cioè il “Sutra del Loto della Buona Legge”, e a quelli della Prajna-paramita. Grandi maestri del pensiero indiano accreditati di maggiore autorità erano Nagarjuna, Vasubandhu, Asanga. Specialmente del messaggio di Nagarjuna si prestava al pensiero cinese che tutti gli esseri fossero dotati in potenza della natura del Buddha e a tutte le creature fosse aperta la via dell’illuminazione. Era l’insegnamento portato avanti in specie dalle scuole dello Hua-yen e del Tiantai e che diventava un denominatore comune del buddhismo in Cina. Il Tian-tai, così chiamato dal nome del monastero che Zhih Kai (531-597) erigeva sulle omonime montagne del Zhejiang, basava la sua soteriologia sul “Loto della Buona Legge” e affermava l’unità fondamentale di tutti gli esseri nella natura eterna e assoluta del Buddha, di cui Shakyamuni, il Buddha storico, aveva rappresentato la manifestazione temporanea. La dottrina predicava un ideale di vita ascetica e di meditazione, sostenendo che il traguardo della salvezza fosse raggiungibile percorrendo con fede la stessa via che il Buddha aveva additato col suo esempio. Lo stesso Shakyamuni, predicando la propria dottrina, aveva usato parole e concetti diversi a seconda delle circostanze e della platea cui si rivolgeva; la dottrina era unica, ma i modi e le vie per comprenderla e abbracciarla si diversificavano: solo in questo senso vi erano più “Veicoli” in seno al buddhismo. Il Jingdu, la scuola della “pura Terra” cui Taochuo (562-645) dava il suo contributo, andava al nocciòlo della salvazione dell’uomo. Predicava la devozione in Amitabha (cin. Amituo) e nel suo paradiso, ove si rinasceva in un miracoloso fiore di loto. Bastava aver fede in Amitabha e invocarne persino solo il nome in punto di morte che il Buddha cancellava ogni karma. I bodhisattva al suo servizio, Mahasthamaprapta ed Avakiteshvara, scendevano sulla Terra ad accogliere l’anima del morente recidendo il filo che lo legava alla vita. Ne seguiva per il defunto una beatitudine che poteva essere a volontà prolungata. Avalokiteshvara, chiamato in Cina Kuanyin, diventava il bodhisattva soccorrevole e misericordioso per eccellenza e assumeva la figura femminile di una protettrice “dea madre”.
Nelle sue espressioni più intellettualistiche, il buddhismo cinese approfondiva la riflessione sull’insostanzialità delle cose, viste come pure apparenze simili a quelle di un miraggio o di un sogno; argomentava sull’irrealtà e la “vacuità” dello stesso pensiero; rifletteva sul rapporto dell’uomo e della sua essenza con l’energia e la coscienza cosmiche.
Agli inizi del secolo VIII, raggiungeva la Cina il maestro indiano Subhakarasimha (637-735), discepolo di Dharmagupta e di nascita principesca. Traduttore in cinese di numerosi tantra, trapiantava la dottrina del Vajrayâna e dava sviluppo alla scuola cinese dei mantra, che prendeva il nome di Chenye (“Vera parola”, “Vero verbo”), ma era più conosciuta come Mizong, la “Scuola dei misteri”. Morto quasi centenario, la sua scuola era continuata da Vajrabodhi (670-741), anche lui principe di nascita, e da Amoghavajra (705-774). Discepoli entrambi di Nagabodhi, si portavano prima dall’India in Indonesia, ove fondavano centri di Vajrayana a Giava. Raggiungevano quindi la Cina, traducendovi anch’essi numerosi tantra. Per il Chenye, l’uomo era il frutto dell’emanazione della coscienza cosmica simboleggiata da Vairocana, il “Buddha universale”. Come già in India, la dottrina riponeva su una preminente concezione cosmoteistico-magica. A sua volta, la scuola del Chan, che promuoveva poi lo Zen giapponese, si rifaceva nel nome al termine sanscrito dhyana o pali jhana, “meditazione, contemplazione”. Sublimava l’interiorità come momento di ricerca e di scoperta della natura stessa del Buddha nella coscienza individuale. Incoraggiava una religiosità viva e vissuta, avversa alla cultura libresca e al sapere formale, fredda nei confronti delle forme esteriori del culto fatte di riti e liturgie. L’introspezione, attraverso la pratica meditativa, era proposta come la condizione di una conquista interiore che poteva essere, a seconda delle scuole, graduale o improvvisa, ma sempre realizzata intuitivamente, col cuore e nel profondo della coscienza e non sul piano dell’intelletto o del mentale.
Articolato in vari ordini e scuole, il buddhismo assicurava alla Cina il cemento per una continuativa coesione di carattere sia religioso sia socio-culturale e promuoveva con l’arte xilografica, cioè con la stampa su matrici di legno, importanti imprese editoriali che dotavano la cultura cinese di opere imperiture.
Rimane che la politica governativa patrocinava alternativamente le istituzioni confuciane e i monasteri taoisti, fino a istituire un culto ufficiale in onore di Laozi. Alla metà del IX secolo, le persecuzioni indette per tutte le istituzioni ecclesiastiche di origine straniera (mazdeismo, manicheismo, giudaismo, cristianesimo nestoriano, islam) coinvolgevano anche il buddhismo, e le perdite diventavano gravissime sul piano monacale, scritturale, monumentale, artistico.
4 dicembre 2014
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
@Riproduzione riservata