Di Adolfo Tamburello
Napoli, 08 mag. - Si sa che Qianlong (ufficialmente regnante dal 1736 al 1796, di fatto dalla fine del 1735 al 1799) è passato alla storia anche per l'inquisizione letteraria indetta dai primi anni '70 del Settecento. Novello Qin Shi Huangdi, non fu il solo sovrano della "Cina" dopo il "Primo Imperatore" a tornare a indire censure e roghi di libri. Opportunamente Lionello Lanciotti nel paragrafo sulla "censura" della sua Letteratura cinese (Roma, IsIAO, 2007) ricordava: "Un antecedente storico della censura che si esercitò soprattutto contro il genere narrativo, può trovarsi nei provvedimenti presi dalla dinastia Tang, quando si obbligarono i monasteri buddhisti a redigere cataloghi dei loro testi; ma, mentre tali elenchi bibliografici servivano per informare le autorità governative della consistenza effettiva della produzione letterario-religiosa buddhista, gli elenchi dei libri da bruciare compilati sotto i Qing avevano lo scopo di informare i funzionari preposti al controllo della stampa e della vendita delle pubblicazioni".
Scriveva ancora Lanciotti, menzionando i primi editti Qing, che "Nel 1736, l'anno in cui Qianlong accedeva al trono imperiale,veniva emanato un ulteriore decreto che avvertiva come 'gli scritti licenziosi e le opere oscene riempiono gli scaffali ed alcuni librai prendono in affitto locali per poterli vendere. Si ordina che entro tre giorni dall'arrivo del presente decreto, si brucino tutti questi libri. I funzionari che, pur essendo a conoscenza di ciò, non applicheranno questo decreto saranno accusati di incapacità nello scoprire dottrine eterodosse e saranno degradati di due posti'. Nel 1753 Qianlong emana il divieto di tradurre in lingua mancese le opere di narrativa licenziose cinesi [...]. La censura considerava, però, licenziose non solamente quelle opere di narrativa chiaramente erotiche od addirittura pornografiche, ma altresì includeva in tale categoria romanzi o racconti che davano fastidio alla classe dirigente. Se la proibizione del Jin Ping Mei poteva trovare una parziale giustificazione in un eccessivo senso di puritanesimo di qualche censore, la condanna, ad esempio, del Sogno della Camera Rossa era un provvedimento a carattere più politico che moralistico".
Lungo la storia tutte le dinastie su suolo cinese avevano ritenuto di difendersi dalle critiche larvate o esplicite indirizzate a loro o ai loro più alti dignitari dagli scritti "irriverenti" dei letterati, e la censura, come nel caso dei Qing, se colpiva opere giudicate scandalose o addirittura oscene, tanto più era rigorosa a carico delle sommesse o lampanti eterodossie dall'ideologia dominante. In più, i Qing continuavano a soffrire di un complesso di inferiorità verso i cinesi, anche quelli ormai più cinesi di loro, e rimanevano molto all'erta da chi continuava sia pure velatamente a qualificarli "barbari" in quanto mancesi o dava segno di rimpiangere la caduta dinastia Ming all'intervenuta "barbarie" con loro.
Sotto questo profilo Yonzheng (r. 1723-1735), padre di Qianlong, era stato il sovrano fino ad allora più severo, e Qianlong da degno figlio del padre bandiva dagli anni '70 la summenzionata inquisizione letteraria in gran parte finalizzata a distruggere ogni opera che avesse sapore di critica ai Qing o interpretabile anche alla lontana in tal senso, per cui migliaia di opere andavano distrutte o ampiamente o meno censurate fino all'espunzione dei caratteri proscritti.
La prima opera che decenni prima Qianlong destinava al rogo - quasi a prova generale di quanto farà in seguito - fu quella che aveva curato suo padre sul caso Zeng Jing e andava sotto il titolo di "Risveglio dall'errore" (Dayi juemi fu). Yongzheng aveva costretto Zeng - diremmo "diabolicamente" - a comporla a due mani con lui, che v'intercalava tanti inserti; l'aveva indotto a confessare com'era stato aizzato a congiurare contro la sua persona, da chi era stato irretito nella cospirazione, e quindi come e perché era stato "destato" a pentirsi di ogni colpa e assumere il ruolo, diremmo oggi, di "collaboratore di giustizia"; non mancava il finale del "ritorno al bene" con la magnanimità del sovrano che gli faceva grazia della vita e lo restituiva ai suoi cari.
Yongzheng aveva avuto ripetutamente il vezzo di mettere in giro le voci che circolavano su di lui, e nel caso di quell'opera aveva ordinato che se ne stampassero più copie possibili non solo dalle stamperie imperiali o dei governatorati provinciali, ma di quelle delle più sperdute località ove si trovassero xilografi e stampatori. Aveva inteso far sapere proprio a tutti i suoi sudditi che il letterato Zeng, "l'uomo i cui delitti sono arrivati fino al Cielo", si era pentito e lui gli aveva generosamente concesso il perdono.
Una volta che Qianlong, preso il potere, ordinava nel 1735 di giustiziare Zeng e sterminarne la famiglia, che se ne doveva fare di quell'opera? La decisione fu di distruggerla. Jonathan D. Spence nel suo Il libro del tradimento non ci fa sapere come i sudditi interpretassero questo provvedimento vandalico del figlio, e il giudizio della storia rimane sospeso su questo atto di violenza, che poco si addiceva a un regnante tenuto a conformarsi ai primi e più sacri valori del confucianesimo ed esigevano da parte di un figlio il pieno rispetto per la volontà di un padre tanto più defunto e (una volta tanto) magnanimo.
È vero che non era la prima volta che un sovrano Qing ritornava sulla decisione presa dal padre defunto. Lo aveva fatto anche Yongzheng come leggiamo in Il mondo cinese di Jacques Gernet a proposito dell'enciclopedia illustrata del Gujin tushu jicheng: "Cominciata a titolo privato da un certo Chen Menglei, nel 1706, sarà ultimata soltanto nel 1725.
Compromesso in un'azione di ribellione a Fuzhou, Chen Menglei è condannato a morte, ma beneficia di una commutazione di pena e viene deportato a Mukden (Shenyang). Graziato poco prima della morte dell'imperatore Kangxi, sarà nuovamente esiliato dal suo successore che imporrà la soppressione del suo nome dall'opera che era stata il lavoro della sua vita". Yongzheng non era arrivato tuttavia a volere la morte di Chen Menglei e la distruzione della sua opera.
Nel caso di Zeng Jing, Spence si limita a osservare argutamente che entrambi i sovrani "sbagliarono i loro calcoli. Il primo pensò che rendendo pubblici tutti i misfatti addebitatigli sarebbe riuscito a far piazza pulita delle dicerie perniciose, e che grazie alla sua onestà i posteri avrebbero onorato il suo nome. Ma il popolo ricordò le dicerie e dimenticò le smentite. Il secondo pensò che distruggendo il libro avrebbe messo a tacere i fantasmi del padre. Ma il popolo pensò che se aveva voluto distruggere il libro, era perché una gran parte del suo contenuto era vera".
Malgrado la massiccia distruzione di quei testi che fu compiuta capillarmente in tutto l'impero restarono molte le copie salvate dai roghi. Alcune avevano raggiunto il Giappone e furono quelle (è sempre Spence a informarci) in cui i riformatori cinesi in esilio dalla Cina si imbatterono intorno al 1899 e ripresero i "casi intrecciati" di Zeng Jing e Lü Liuliang, i cui scritti erano ancora al bando nell'impero Qing.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
8 MAGGIO 2017
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