C’è un milione di biciclette a Pechino, diceva una canzone molto orecchiabile qualche anno fa. Già allora la stima era ampiamente al ribasso, ma da qualche mese, cioè da quando in Cina è esploso il mercato del bike sharing, i veicoli a pedali sono tornati a essere ovunque, segnando una rivincita sulle automobili e sul traffico infernale della città. OFO e Mobike sono solo due tra le compagnie che stanno lottando per spartirsi una clientela potenzialmente sterminata, e sulle strade di Pechino, nei parcheggi adibiti alle due ruote che si trovano nei pressi di centri commerciali, fermate della metro e quant’altro, di bici da noleggio se ne vedono di tutti i colori e tutte le tipologie.
Ognuna appartiene a un’azienda diversa, ma, in comune, le bici in condivisione hanno che si gestiscono tramite app, che costano pochissimo e che, dal maggio di quest’anno, per decisione del Ministero dei trasporti, non richiedono nemmeno più un deposito cauzionale da parte degli utenti. Quasi tutte si possono prendere e parcheggiare in qualsiasi angolo della città, senza bisogno di approdare a una “base” specifica. Nel caso delle OFO, che fanno capo anche al colosso dell’e-commerce cinese Alibaba, basta individuare una bici gialla per strada, sbloccarla attraverso il proprio account via smartphone e partire. Arrivati a destinazione, la si lascia sul marciapiede o nelle aree per le bici, “chiudendola” sempre via smartphone, e tanti saluti. Più comodo di così.
In calo le bici di proprietà
E infatti il bike sharing è semplicemente esploso in Cina e, sulle strade e sui controviali di Pechino, è sempre più raro incrociare persone che circolino con una bicicletta di proprietà. Tutto bene, allora? Viva la sharing economy in salsa cinese e il boom dell’alternativa pulita alle quattro ruote?
La stessa capillare diffusione ha avuto, nel giro di pochi mesi, anche la funzione di pagamento tramite cellulare offerta da WeChat (l’app di messaggistica usata da tutti i cinesi con caratteristiche a metà tra Facebook e Whatsapp). Al ristorante non c’è più nessuno che apra il portafogli per pagare, in contanti o tramite carta. Si usa il telefono: basta aprire la app, fare una scansione del QR e il conto è saldato. “È così comodo”, mi hanno detto amici sia cinesi che europei, soprassedendo completamente sugli aspetti potenzialmente controversi del servizio.
Le riflessioni del professor Yong
Hu Yong, docente della Scuola di giornalismo e comunicazione dell’Università di Pechino, è invece tra quelli, evidentemente una minoranza, che non si sono lasciati convincere da comodità e rapidità. Quelli delle bici in condivisione e dei sistemi di pagamento via cellulare sono alcuni degli esempi che lo studioso, parlando ai partecipanti di una summer school su media e comunicazione organizzata dall’Università di Pechino e dall’Osservatorio sui media cinesi dell’Università della Svizzera Italiana di Lugano, ha presentato a supporto delle sue riflessioni. Riflessioni che riguardano il web cinese, ma che hanno effetti su tutto il mondo.
“Dall’acquisto della SIM all’uso dell’account pubblico di WeChat, dagli acquisti sul sito di e-commerce Taobao (sempre di Alibaba) all’online dating, nella rete cinese non è più possibile fare nulla in modo anonimo”. Le regole sulla “registrazione del nome reale”, entrate in vigore anni fa, avevano segnato soltanto l’inizio di una tendenza che ha reso oggi impossibile fare qualsiasi cosa in rete, a meno di fornire una gran quantità di dati personali ad aziende e gestori e quindi, in ultima analisi, al governo cinese.
Una questione di privacy
“Quando prendete a noleggio una bici OFO – spiega lo studioso -, per avere un account e accedere al servizio, avete dovuto innanzi tutto registrare il vostro numero di telefono. Non essendo più possibile da tempo acquistare SIM in modo anonimo, quel numero rimanda immediatamente alla vostra persona. Dovete poi fornire le vostre generalità, inviare una scansione del vostro documento di identità e, infine, scattarvi una foto in cui, accanto al vostro volto, mostrate il documento di cui avete fatto la scansione, tenendolo aperto sulla pagina della foto. Oltre a questo, dovete ovviamente collegare il vostro account anche a uno dei sistemi di pagamento via smartphone, come Alipay”.
In questo modo, continua Hu Yong, “le aziende che gestiscono il bike sharing entrano in possesso di una quantità enorme di dati e informazioni su di voi: la vostra identità e il documento che la prova, il vostro numero di telefono, il vostro conto, la vostra posizione geografica. Sanno da dove partite e dove vi dirigete, in che orari e se e quando e per dove ripartite con un’altra bici. Le aziende sostengono che la raccolta di tutti questi dati permetta di prevenire danni e reati, perché, se gli utenti sanno di essere identificati, non faranno nulla di illecito. Il problema, però, è che noi utenti non sappiamo che cosa verrà fatto dalle aziende, e dal governo, con tutte le informazioni e i dati che forniamo loro attraverso l’utilizzo di questi servizi”.
Il calcolo del credito sociale delle persone
A rendere ancora più cupo lo scenario presente e futuro del web cinese e dell’utilizzo dei big data sono gli otto progetti pilota supervisionati dal governo per la creazione di una sistema di “punti credibilità”, per calcolare il “credito sociale” delle persone. Quello della società Sesame, un altro dei tanti rami di Alibaba, è uno dei più noti. Ad oggi volontario, dal 2020 potrebbe diventare obbligatorio. A quel punto, “tutti i cittadini cinesi saranno inseriti in un database che registrerà le loro informazioni finanziarie e personali, deducendone la loro affidabilità sociale”. Un vero e proprio punteggio che, già oggi, permette di essere “speso” quando si cerca l’anima gemella online, ma che potrà diventare sempre più importante anche “per essere assunti, per accedere a spazi VIP in aeroporto, per ottenere visti con procedure semplificate, per ottenere un mutuo o un prestito”.
Non c'è protezione dei dati
Per Hu Yong, che lo definisce “un metodo estremamente potente di misurare le persone”, questo sistema potrà avere risvolti preoccupanti in un Paese dove “mancano i principi e le norme per la protezione delle informazioni personali. Il governo e le aziende chiedono i dati dei cittadini, ma non li proteggono: i dati dicono che in media quattro ogni cinque internauti cinesi hanno sperimentato una diffusione involontaria dei propri dati”. E lo stesso succede e succederà, prevede Hu Yong, a tutti coloro che si serviranno di quelle app e di quei servizi. In qualsiasi parte del mondo si trovino.