di Adolfo Tamburello*
Napoli, 12 giu. - Con gli Yuan (1271-1368) culminava una diaspora cinese di secoli in tutta l’Asia; si era intensificata con l’incalzare dei kitan e jurchen dai secoli X-XI. Meta ambita d’espatrio rimaneva il Giappone dalle favolose ricchezze e per il quale erano molti i cinesi delle coste a offrirsi addirittura come schiavi ai cosiddetti wako, i pirati per antonomasia “giapponesi”, in realtà molti di loro coreani e cinesi che ai periodici sbarchi si addentravano nelle città e nei villaggi razziando e saccheggiando uomini, animali e cose. Arrivati in Giappone e acquistati o ceduti, gli immigrati si aspettavano, come sembra tutti sapessero, di tornare a essere prima o dopo uomini liberi.
Tanti più cinesi sbarcati dalle navi mongole furono lasciati o rimasero in Giappone al rientro della vana spedizione inviata nel 1281 da Kubilai per invadere l’arcipelago. Non se ne conosce il numero, come non si conosce quello dei cinesi che disertarono le armate mongole sempre di Kubilai ai suoi tentativi pure vani di invasione della Birmania e degli altri paesi della penisola indocinese fra il 1277 e il 1287 e di Giava nel 1293.
Questa restava comunque una percentuale irrisoria rispetto all’esodo delle masse che prendevano scampo dai mongoli a ridosso o dopo la caduta dei Song e che investì a Est anche la Corea e ancora il Giappone oltre al Sud-Est Asiatico, e si era protratta fin dall’avvento della dinastia nel 1271. Ingente e continuativa era anche l’immigrazione nel Vietnam e per mare nell’oceano Indiano almeno fino a Singapore, in quella che doveva diventare la prima comunità cinese di Tomasik. Il flusso migratorio era perfino favorito dagli efficienti mezzi di comunicazioni e trasporti su terra e acque assicurati dall’amministrazione Yuan con le stazioni di posta e di cambio dell’interno e le portualità aperte ai traffici appaltati a linee private di navigazione cinesi o straniere.
Sono pagine ancora da aprire quelle dell’emigrazione volontaria o forzata, del commercio e il ratto delle donne e dei bambini, dei trafficanti d’uomini che ne tenevano le fila. Molti cinesi entravano in Corea e Giappone anche come accompagnatori più o meno clandestini dei monaci che vi rientravano dopo avere visitato la Cina ed entravano al servizio dei monasteri buddhisti coreani e giapponesi per le più svariate mansioni: addetti alle dispense o ai rifiuti, cuochi, giardinieri, sarti, sagrestani; i più colti come novizi, alcuni come copisti, traduttori, interpreti, bibliotecari, esperti d’arte.
Nell’accoglienza si distinguevano i monaci zen rimasti in stretto contatto coi loro maestri chan cinesi, al punto che uno di loro, Muso Kokushi (1275-1351), promuoveva proficui contatti fin con la corte Yuan per una ripresa dei rapporti ufficiali del Giappone con l’impero mongolo e nel 1339 poteva concordare con il locale shogun Ashikaga Takauji l’invio di mercantili in Cina. Nel 1342 partivano le prime navi che instauravano un fiorente scambio commerciale fra il Giappone e la Cina, proseguito dopo l’ascesa della dinastia Ming (1368-1644). Contestualmente, erano allacciati rapporti commerciali anche con la Corea.
I rinnovati contatti ufficiali tornavano a stringere i legami con la cultura e le arti continentali e l’influenza delle arti Song e Yüan dominò molti aspetti della produzione artistica giapponese sia sacra sia profana. Con tutti i cinesi su cui poteva contare, il monachesimo zen fece dei suoi templi - specialmente i Gozan, cioè i monasteri delle “Cinque montagne” di Kamakura e Kyoto - vivaci centri editoriali, laboratori d’arte, autorevoli uffici di expertise, negozi di prodotti artistici e artigianali. Una parte cospicua delle vendite di karamono, gli “oggetti cinesi”, consisteva in prodotti artistici, molti d’anti-quariato Song e in specie in dipinti a inchiostro.
Rimasto famoso resta il trittico del grande pittore monaco chan Muqi Fachang (c. 1210-1275) pagato all’epoca da uno shogun Ashikaga cinquanta volte più di quanto fosse remunerato per un’opera il miglior artista di Kyoto. Si è calcolato che il prezzo di un singolo dipinto cinese di buona mano, anche d’artista contemporaneo, oscillasse fra i cinque e i dieci milioni dei nostri giorni. Non sappiamo come venissero divisi gli utili; era comunque un giro d’affari in cui i monaci cinesi agivano da fornitori e i giapponesi da acquirenti quando non da committenti. È indicativo il caso, sia pure isolato, di Mokuan, un monaco pittore giapponese che soggiornò in Cina verso la metà del sec. XIV presso lo stesso monastero di Muqi, e giunse a imitare tanto alla perfezione le opere dell’insigne maestro da esserne ritenuto una reincarnazione. L’abate non ebbe difficoltà a consegnargli i sigilli di Muqi e Mokuan non si fece scrupolo a usarli col risultato che molti dipinti dell’artista giapponese passarono per opere originali del maestro cinese, mentre le sue stesse opere erano vendute come originali di un maestro cinese, dato che per molto tempo persino i giapponesi furono tenuti all’oscuro che Mokuan era in realtà un loro connazionale.
Sul continente l’esodo dalla Cina interessò fin l’Asia occidentale e la Russia. Dai pochi cinesi che lasciarono memoria dei loro viaggi sappiamo che trovarono ovunque connazionali ormai stabiliti in città come Baghdad. Tabriz, e perfino Mosca e Novgorod.
I cinesi erano naturalmente bene accolti ovunque, fossero contadini, servi, operai, intellettuali. I più erano gente molto pulita, pratica delle norme igieniche, già lavandai famosi, cuochi raffinati, tessitori provetti. Perfino al telaio battevano i rivali centroasiatici nella tessitura di stuoie e tappeti e non lavoravano solo lane, ma seta, canapa, cotone. Portavano inoltre tante novità come carta, stoviglie e altri utensili domestici, non andavano scalzi e non mangiavano con le mani. Tutti sapevano far di conto e molti sapevano leggere e scrivere.
In Cina erano tanti gli stranieri al servizio dei Mongoli; nei khanati mongoli erano in gran numero i cinesi al loro servizio. Molti vi accompagnavano i dignitari turchi, persiani, arabi al rientro, molti i mercanti. Comandanti e ufficiali cinesi erano arruolati nelle armate mongole, artificieri cinesi addetti agli arsenali e alle miscele delle polveri e confezioni d’ordigni e fuochi, ingegneri e maestranze cinesi lavoravano fino alle dighe e ai canali del Tigri e dell’Eufrate, .
Ci si rende conto della dispersione che ebbero allora in Asia invenzioni e tecniche cinesi e le opportunità che ebbero i naviganti delle nostre Repubbliche marinare che pur non arrivavano in Cina di familiarizzarsene per riportarle in Europa. Persino la medicina cinese era ben conosciuta col compendio che ne dava Rashid al-Din (1247-1318).
12 giugno 2015
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
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