Shanghai, 29 apr. - Un artificio che viene spesso utilizzato per rendere la complessità della Cina contemporanea consta nel ragionare per blocchi tematici, macro aree che raccolgono una pluralità di temi di una certa complessità. Un esempio di questo procedere è la questione della popolazione migrante. Le stime parlano di 130 milioni di uomini e donne trasferitisi dalle zone rurali meno sviluppate del paese verso quelle a maggiore vocazione industriale, e che costituiscono la più grande migrazione della storia dell'umanità. "Operaie", il libro dell'ex corrispondente del Wall Street Journal da Pechino, Leslie Chang, ha il pregio di scardinare alcuni dei luoghi comuni che si accompagnano alla narrazione sul mondo dei migranti cinesi. La giornalista lo fa, decidendo di raccontare la vita di alcune ragazze, poco più che adolescenti, che costituiscono oggi una significativa percentuale della seconda generazione di migranti. Se lasciarsi il villaggio alle spalle e "chuqu", partire alla volta delle fabbriche, rappresentava nel decennio '80-90 un' esigenza ed era un'esperienza vissuta come un salto nel buio, oggi i termini della questione sono cambiati. Gli sforzi del governo per potenziare le zone più depresse del paese iniziano a dare i loro frutti, molti di quelli che erano partiti e che hanno vissuto l'esperienza del lavoro in fabbrica tornano e decidono di restare. L'inflazione galoppante rende la vita nelle città sempre più costosa e a parità di benefici si preferisce rimanere più vicini a casa e ai propri affetti. A rappresentare un'eccezione in questo quadro sono i milioni di giovani ragazze per cui partire rappresenta ormai una scelta più spesso motivata dal desiderio di evadere, perché la città è vista come l'unica opzione disponibile per tentare di cambiare le sorti del proprio destino. Una volta uscite dal villaggio e liberatesi dai ruoli tradizionali, queste ragazze entrano in una sorta di limbo di identità che si concluderà solo quando, e se, si sposeranno e verrano accolte dalla famiglia del marito. A chi e a cosa appartengano nel frattempo pare essere l'interrogativo che ripercorre tutta la narrazione di questo libro-reportage. Non più certo alla campagna, dove tornano ma con un certo disagio, sentendosi ormai estranee a un mondo a cui non appartengono più. Le difficoltà e il costo del cambio di residenza sono tali da fare di queste persone per lo stato lavoratori in temporaneo distaccamento, per le famiglie fonte di reddito e per luoghi come Dongguan - il centro industriale del Guangdong dove si svolge la narrazione - poco più che ombre che si muovono impazzite da un lavoro all'altro. Quella delle donne migranti di oggi è una generazione che parte ma difficilmente torna al villaggio, proiettata com'è verso le città, molto più di quella che l'ha preceduta. A conferma di questo mutamento è la constatazione che a scandire i tempi del ritorno al villaggio non è più il calendario lunare o i tempi del raccolto, ma sono ormai le esigenze della produzione. Solitarie nella scelta che fanno e nel modo in cui la vivono, la vita di queste ragazze ci aiuta a delineare alcune delle coordinate utili per interpretare uno dei tanti aspetti di una nuova Cina che sta emergendo. I migranti incapsulano, infatti, la mobilità della società cinese odierna, sono un microcosmo che in parte anticipa quello che succederà nel paese. Una situazione in cui i network e i legami parentali non rappresentano più l'unico nucleo attorno al quale l'agire sociale dell'individuo si articola, bensì un sistema dinamico, fatto di flussi di persone, merci, reti che si connettono e si disconnettono a velocità notevole, ridisegnando i profili di una realtà che diviene fluida. Più solitarie e smarrite dei loro colleghi uomini, le ragazze, hanno però maggiori possibilità di riuscire nella loro carriera e sembrano intenzionate a sfruttarle tutte.
Di seguito l'intervista che l'autrice, Leslie Chang, ha rilasciato in occasione della sua partecipazione all'ultimo Festival della letteratura di Shanghai.
Come mai, tra tutti gli argomenti possibili correlati alla Cina, ha deciso di scegliere proprio questo?
Nel 2004, mentre lavoravo per il Wall Street Journal, mi sono resa conto che ci si iniziava ad interessare al fenomeno dei migranti in Cina. Mi sono bastati tre giorni a Dongguan per capire che avevo trovato un argomento su cui era possibile scrivere un libro. In questo libro ho voluto scardinare l'assunto che generalmente presenta la popolazione migrante cinese come vittima del sistema e potenziale nucleo di tensioni sociali. Queste ragazze erano sole e sradicate, venivano da un modo tradizionale in cui erano riconosciute come individui, in cui erano "figlie di, sorelle di", e arrivavano in un luogo dove non erano nessuno. Si penserebbe quindi a persone in una condizione di assoluta debolezza eppure questo non lo si avvertiva mai. Le ragazze di cui racconto la storia non si sentivano certo deboli. Si sono dimostrate capaci di prendere posizione contro un capo che le vessa o contro i colleghi. Eppure tutto avviene e rimane a un livello individuale, senza mai allargarsi a questione di molti. La stampa in generale invece si sofferma sulle forme di protesta di massa, che certo esistono, ma che non rappresentano certo la regola. Non ho mai visto tra queste ragazze nessun senso né desiderio di operare per un fine comune, ognuno cerca di risolvere i propri problemi in modo molto personale, non si considerano un gruppo di individui e tantomeno si avverte alcun senso di appartenenza di genere. Posso dire che una coscienza femminista è totalmente assente!
Una costante che ho riscontrato è invece un senso di forte solitudine aggravato dalla scarsa consistenza dei rapporti sociali che si instauravano all'interno delle fabbriche e alla difficoltà di mantenere comunicazioni e i contatti. Il telefono cellulare era il primo acquisto di ogni migrante, l'unico modo per mantenere i rapporti con i parenti lontani; rappresentava anche la possibilità di costruirsi relazioni interpersonali al di là del posto di lavoro o anche al suo interno. Spesso avveniva, infatti, che i dormitori delle fabbriche venissero riorganizzati per esigenze di produzione e persone, che avevano convissuto per molto tempo, separate. La perdita del telefono cellulare, fatto abbastanza frequente nella vita tumultuosa di queste ragazze - o cambiati i numeri dal momento che la popolazione migrante è sempre alla ricerca delle tariffe telefoniche più vantaggiose - si perdevano semplicemente i contatti con un certo numero di persone e questo sembrava rappresentare qualcosa di simbolico. Le ragazze ne prendevano atto e passavano oltre anche perché Donggan è enorme, ci abitano 8, 10 milioni di persone, ed è quindi impossibile incontrare qualcuno per caso. In fondo il ruolo svolto dal telefono è interessante perché, oltre a rappresentare la connessione al proprio mondo con il tempo, diventa anche un elemento di evasione dallo stesso. Usato con una certa sprediudicatezza si poteva anche trasformare nel modo per tagliare i ponti con il passato e passare oltre.
Come ha conquistato la fiducia delle ragazze di cui racconta la vita?
Da un certo punto di vista le due ragazze di cui parlo nel libro, sono persone particolari, si sono sempre mostrate curiose di me e del mio mondo e molto aperte. Per il resto sono però uguali a tutte le loro simili con le stesse aspirazioni, e i piani per migliorare la loro vita. In una città come Shanghai o Pechino è facile sentirsi degli stranieri, Dongguan è invece una babele di etnie e dialetti dove tutti appartengono necessariamente a un altro luogo, ed è quindi facile confondersi come stranieri.
Ha mai pensato di calarsi totalmente nella loro vita e di entrare in fabbrica sotto mentite spoglie?
Sì, ci ho pensato inizialmente, ma poi ho anche capito che calandomi nella realtà sarebbe stato difficile far finta di essere una di loro e allo stesso tempo raccontare le loro storie. In più avevo anche deciso di seguire un gruppo di ragazze diventate amiche in fabbrica, ma non ho trovato una situazione del genere. Certo, delle amicizie esistevano ma non si creavano dei veri gruppi perché c'era parecchia diffidenza all'interno delle fabbriche: si cercava di mantenere le distanze, temendo chiacchere e pettegolezzi.
Qual è a suo parere la relazione tra la popolazione migrante e il governo?
Quando ho iniziato a condurre le mie indagini su Dongguan, sono andata a conoscere il sindaco e gli ho rivolto una semplice domanda: quanti abitanti ha la città? La sua risposta è stata due milioni e, davanti al mio stupore, si è sentito di puntualizzare che la popolazione migrante non era conteggiata.
Come ha fatto a mantenere le distanze e a non diventare parte della storia?
Fin dall'inizio di questa avventura ho temuto che prima o poi sarebbe arrivato il momento in cui queste ragazze si sarebbero rivolte a me per un aiuto. Ma quel momento non è mai arrivato. Io, con la mia storia e la mia provenienza, rappresentavo un soggetto talmente estraneo all'intero contesto da non venivo nemmeno presa in considerazione. Forte era poi il senso dell'orgoglio. Inizialmente volevo fare un paragone con l'esperienza degli immigrati negli Stati Uniti, ma poi mi sono resa conto che le differenze erano troppe. Chi arrivava in America aveva un senso dell'orgoglio che gli veniva dal provenire da un certo background, all'arrivo nella grande città trovavano un aiuto, dei "city fathers" che li introducevano nella realtà; qui, invece, tutto è basato sull'individualismo e gli ideali non esistono, c'è piuttosto un senso di vergogna per il fatto di provenire dalla campagna.
Quali effetti hai potuto notare sulle strutture sociali familiari?
Le rimesse dei migranti sono la principale forma di alleviamento della povertà nella Cina rurale. In termini sociali questo ha forti ripercussioni sull'intera struttura sociale, scardinando ruoli sopravvissuti a millenni di storia. Le ragazze diventano la fonte principale di reddito per la famiglia, lasciano la casa paterna in un modo e tornano dall'esperienza in fabbrica cambiate, più sicure di sé. Iniziano a mettere in dubbio l'autorità paterna e degli anziani.Da parte loro i genitori sembrano spesso accettare a malincuore questa situazione e, se in un primo momento non concordano con la scelta delle figlie, appena visti i frutti del loro lavoro sono i primi a spronarle a tornare in fabbrica o ad accettare lavori più redditizi. Queste storie ci dicono molto di come si appresta a diventare la Cina e predicono forti costi a livello psicologico, conflitti di genere, contrasti intragenerazionali.
Le ragazze di cui parlava, che fine hanno fatto?
La più giovane si è spostata e ora ha un bambino. Ha comprato una casa in una città vicina al villaggio per i genitori e vive con la famiglia del marito. La più grande delle due è ancora alla ricerca del lavoro ideale. L'ultima volta che l'ho vista mi ha detto di volere trovare un lavoro in cui si guadagna senza faticare! Nel frattempo ha già cambiato sei o sette occupazioni, sta ancora studiando inglese, lingua che ora pratica, come le avevo consigliato inizialmente, con un boyfriend straniero, brasiliano per la precisione!
Hanno mai letto il libro?
Il libro è stato tradotto in caratteri tradizionali per il mercato di Taiwan, ma non è ancora entrato in Cina. Alcune delle storie che avevo scritto per il Wall Street Journal le ho fatte tradurre e le ragazze le hanno lette.
Ha progetti per il futuro? Un sequel?
Magari un sequel, quando queste ragazze sarnno diventate miliardarie, forse. Al momento il progetto è quello di spostarmi in medio oriente, in Egitto probabilmente, dove ci sono molte altre storie da raccontare.
di Nicoletta Ferro
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