Roma, 09 nov. - Perché Prato? Cosa rende questa zona così 'fertile' per il pronto moda cinese?
A Prato si sono venuti a creare diversi fattori che hanno reso possibile lo sviluppo del pronto moda cinese. Per prima cosa i pochi controlli che sono stati effettuati nella città toscana hanno regalato ai cinesi l'opportunità di operare indisturbati; in secondo luogo, la forte crisi del tessile ha creato una grande disponibilità di spazi, in prevalenza capannoni, da utilizzare.
A ciò bisogna poi aggiungere la collaborazione di 'braccia italiane', ovvero di quelle persone del 'sottobosco' che hanno aiutato i cinesi a mettere in piedi questo distretto illegale. Decisiva è stata poi la collocazione geografica: il fatto di essere al centro dell'Italia e sulla direttrice nord sud favorisce gli spostamenti, tanto ogni fine settimana a Prato si assiste a un flusso di compratori dell'est Europa e dell'Europa centrale che arrivano nella città toscana per fare il carico di prodotti di abbigliamento cinese.
Tutti questi fattori, uniti alla disponibilità di servizi (logistica, spedizioni, ecc.) presenti sul territorio grazie alla lunga tradizione pratese nel settore moda hanno contribuito al successo del pronto moda sino-pratese.
E' possibile secondo lei replicare altrove in Italia l'esperienza pratese?
Secondo me a Prato si è verificata una 'congiuntura astrale favorevole'. E' difficile dire se il fenomeno sia replicabile altrove, ma di certo la realtà manifatturiera, la location, la crisi del tessile e la scarsità dei controlli sono tutti elementi fondamentali che inducono a pensare che oggi sarebbe molto difficile esportare altrove il modello pratese.
Uno dei punti di forza del pronto moda sino-pratese è naturalmente il prezzo stracciato. Un metro di tessuto importato dalla Cina costa 54 centesimi contro i 5 euro del prodotto italiano. A ciò si aggiungono poi le evasioni fiscali e l'ingresso di tessuti illegali che arrivano nei porti di Napoli, Livorno, Genova e La Spezia e che costituiscono ormai un fatto noto. Quale è il grado di responsabilità delle autorità doganali e cosa ha fatto finora il governo italiano per mettere un freno a questa tendenza?
Un'inchiesta condotta dalla guardia di Finanza, in collaborazione con l'Agenzia delle Dogane, e resa pubblica proprio mesi fa ipotizza un contrabbando di tessuti in arrivo dalla Cina e che entrano nel nostro Paese senza pagare dazi e IVA. Naturalmente in questa inchiesta non sono coinvolti solo i cinesi, ma anche funzionari italiani che inevitabilmente hanno permesso tutto ciò. Non credo, infatti, che un'attività di questo tipo sia possibile senza la collaborazione di personale dei porti e delle dogane europee. In questi anni sono stati fatti pochi controlli dogane ed è stata fatta passare molta merce.
Si potrebbe parlare di 'concorso di colpe'?
Quello di Prato è sicuramente uno di quei casi in cui lo Stato italiano ha dimostrato la propria scarsa forza nel fare i controlli, a qualsiasi livello: locale, nazionale, sono stati condotti pochi controlli nei porti, nei negozi cinesi, e sui soldi guadagnati dai cinesi spesso in modo illegale che attraverso money transfer vengono mandati in Cina. E' come se lo Stato avesse girato la testa dall'altra parte e avesse deciso di non guardare quello che stava succedendo.
A marzo il Parlamento italiano ha approvato la legge Reguzzoni-Versace che stabilisce che per poter etichettare un marchio come "Made in Italy" il capo deve aver subito almeno i 2/3 della lavorazione in Italia. La legge sarebbe dovuta entrare in vigore dal 1 ottobre, ma manca ancora il via libera di Bruxelles. Se la normativa dovesse essere varata quanto ne risentirebbe il distretto di Prato? E quanto il Made in Italy sarebbe effettivamente protetto dalla concorrenza sleale?
La legge Reguzzoni non dovrebbe toccare il distretto pratese. I cinesi a Prato realizzano due fasi: la cucitura e la nobilitazione - tintura del capo finito, rifinitura del capo, stampa di disegni su magliette e abiti – .Se la normativa dovesse essere approvata i cinesi di Prato continuerebbero ad apporre (legittimamente) l'etichetta Made in Italy, in linea con i principi della Reguzzoni - Versace. In questo caso il Made in Italy prodotto in Italia sarebbe legittimo. Ma se l'Ue non riesce ad approvare una normativa sull'etichetta "Made in" delle merci in entrata nel continente, non è possibile mettere un freno nemmeno a quei prodotti che vengono prodotti all'estero ed etichettati in Italia.
Spesso si tratta di prodotti di scarsa qualità. E' così per molti generi alimentari ed è così anche per le stoffe che contengono sostanze tossiche. Ma mentre la Cina prima di importare prodotti dall'estero li sottopone a lunghe analisi ed esami, l'Ue non impone obblighi di salubrità e "spalanca i cancelli". Perché?
Questo è il grande problema della mancanza di reciprocità. L'Europa richiede scarsissimi requisiti per poter ammettere merci varie, in particolare quelle tessili. Spesso queste stoffe vengono importate dalla Cina senza alcun problema, ma nel momento in cui questi tessuti vengono trasformati in abiti e riesportati in Cina, vengono fermati alle dogane, esaminati accuratamente e spesso respinti perché per il governo cinese non rispondono ai parametri richiesti. Mentre questo grande Paese in via di sviluppo si è attrezzato con una serie di barriere e di ostacoli per selezionate l'ingresso di merci sul proprio territorio, l'Europa rimane a guardare. Famoso è il caso di Zegna che tempo fa si è visto respingere alla dogana alcuni tessuto precedentemente acquistati in Cina perché ritenuti non idonei. Ci troviamo quindi di fronte a un caso davvero paradossale. Se vogliamo dirla in modo banale, la Cina si è attrezzata per proteggere le sue frontiere, l'Europa no: la prima è molto più restrittiva ed esigente, la seconda importa tutto e fa passare qualsiasi cosa. E oggi ne paghiamo le conseguenze.
Secondo lei è un fatto di 'distrazione' , di 'ingenuità', si teme di 'stuzzicare' il Dragone o c'è qualche altra ragione?
Questa è una risposta che dovrebbe dare la politica. Sicuramente a Bruxelles ci sono forze contrastanti per cui accanto a Paesi importatori, che non hanno molti interessi a porre paletti all'ingresso delle merci in Europa, si collocano altri Paesi manifatturieri, tra cui l'Italia, che avrebbero grande interesse a imporre una serie di parametri di protezione come avviene in molti altri Paesi. E' questo scontro che fino ad oggi ha ritardato l'approvazione dell'etichettatura per i prodotti importati. Credo che alla base di tutto ci sia il conflitto tra i Paesi dell'Ue, ma naturalmente anche la grande potenza cinese ha un grande peso.
Nel libro si parla di due aziende, Giupel e Koralline, che hanno imboccato la via della legalità. La prima, specializzata in capi in pelle è una delle poche SPA in Italia, la seconda è "il primo marchio cinese Made in Italy". Pensa che saranno d'esempio anche per altre aziende o resteranno casi isolati?
Spero vivamente che siano d'esempio per le altre aziende, ma purtroppo a sei anni di distanza dalla sua entrata in Confindustria, bisogna constatare che Giupel continua a essere l'unica compagnia cinese iscritta nel registro. Giupel era entrata in Confindustria con la speranza e la promessa di portare altre aziende sulla via della legalità, ma nessun'altra ha seguito il suo esempio e il ponte tra le aziende cinese e la comunità italiana che Giupel si era prefissata di costruire è franato miseramente. Oggi Prato conta 5000 aziende cinesi di cui 4000 operanti nel settore dell'abbigliamento e ancora oggi i controlli eseguiti dalle forze dell'ordine mostrano che la maggior parte di esse presentano grandi sacche di illegalità. Un fatto allarmante soprattutto se si considera il fatto che è tra l'illegalità e la grande circolazione di denaro che spesso si vanno a insinuare le organizzazioni criminali.
di Sonia Montrella