Recentemente, si è tenuto un interessante convegno presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma, dove tengo un corso sul diritto commerciale cinese. Durante il convegno, organizzato in occasione della presentazione del libro “Capitalismo Rosso” di Andrea Goldstein (Managing Director di Nomisma), edito da EGEA, sono intervenuti, oltre all’autore, anche Alberto Bradanini, già ambasciatore italiano in Cina, Marco Wong, consigliere di banca ed ex manager presso società dei gruppi TIM, Pirelli e Huawei, la Prof.ssa Laura Cassanelli, Docente di Cultura e Società dei Paesi di Lingua Cinese presso UNINT, e il sottoscritto. Data la qualità dei relatori ne è uscita un’intensa discussione sul fenomeno che da qualche anno sta interessando anche l’Italia: l’acquisizione di società locali da parte di aziende cinesi.
È una tematica che mi coinvolge direttamente, non solo perché sono di origine cinese, ma soprattutto perché in concomitanza con questo fenomeno anche il mio lavoro è cambiato, passando dall’assistenza di aziende italiane che investono in Cina, al coinvolgimento in qualità di legale in operazioni di merger & acquisition effettuate da società cinesi - spesso quotate - nei confronti di società target italiane operanti nel settore manifatturiero, medico, farmaceutico e adesso anche robotico.
I numeri di una svolta
I dati parlano chiaro, se pochi anni fa, nel 2010, secondo Bloomberg gli investimenti cinesi in Italia arrivavano a malapena a 14 milioni di dollari, già nel 2014 sono saliti vertiginosamente fino a 4,9 miliardi di dollari, per giungere, secondo il Sole 24 Ore, fino a 7,8 miliardi di dollari nel 2015, permettendo al Bel Paese di primeggiare sulla Francia, Regno Unito, Paesi Bassi e Germania, Paesi che nel passato sono riusciti ad attrarre maggiori investimenti cinesi.
Senza pretesa di completezza, tra il 2014 e il 2016, società come Pirelli, Krizia, Salov, Buccellati, MCM, FC Internazionale e tanti altri hanno cambiato titolarità, con importanti società cinesi che ne divenivano nuovi soci unici o di maggioranza. Escludendo le operazioni sulle blue chip italiane come quelle relative a Generali, Telecom Italia, Eni, Enel, Fiat e Prysmian dove la People's bank of China oggi detiene almeno il 2% delle azioni, , grande rilievo ha avuto anche l’acquisizione di Ferretti, avvenuta nel “lontano” 2012.
Tutte queste operazioni, in generale, hanno dei minimi comuni denominatori. Esse, infatti, promuovono l’internazionalizzazione delle aziende cinesi e italiane, creando valore aggiunto dalla loro integrazione strategica. In particolare, da queste operazioni straordinarie, per le società italiane deriva una maggiore penetrazione nel mercato cinese, consentendo loro una condivisione della rete di distribuzione in Italia, in Cina e nel resto del mondo, con conseguente incremento del fatturato e riduzione dei costi.
Non solo, strategie ben definite permettono di condividere le tecnologie e il know-how (una condivisione spesso anche reciproca, non solo unilaterale dalle società italiane alle cinesi), utili ad esempio per creare nuovi prodotti e, conseguentemente, mercati.
Inoltre, l’accresciuta solidità economica della società italiana dopo l’acquisizione ne favorisce l’incremento di fatturato, accrescendo inoltre l’affidamento dei propri clienti e permettendo a questi di procedere con maggiore sicurezza negli ordini.
Questo percorso di integrazione strategico è tanto utile quanto complesso, dato che per molte aziende cinesi queste operazioni rappresentano una novità. Spesso queste “escono” dal loro paese per la prima volta, mediante un percorso tortuoso e pieno di numerose problematiche tecniche, manageriali, ma anche, e soprattutto, culturali, per la risoluzione delle quali è richiesta tanta pazienza e un continuo dialogo tra le parti coinvolte. In ogni caso, nell’era della globalizzazione, per quanto varie siano le ragioni, queste operazioni possono fare la differenza, sia per le imprese cinesi che per quelle italiane.