Mi è stato chiesto a volte se c’è qualcosa del modello di sviluppo economico cinese che possiamo imparare in Italia (su quello politico, nessuno mi ha fatto questa domanda per ovvie ragioni). E’ difficile dirlo, i due paesi sono diversi e hanno dovuto affrontare difficoltà diverse, partendo oltretutto da diversi gradi di sviluppo.
Se c’è qualcosa però che potrei permettermi di suggerire è quella di studiare le zone economiche speciali cinesi e le varie più recenti “free trade zones”, che - sebbene con caratteristiche diverse - hanno ripreso di recente il ruolo delle vecchie zone economiche speciali (“ZES”).
Cosa sono le zone economiche speciali
Costituite negli anni 80 con fini sperimentali per testare riforme per così dire “liberali” che poi sarebbero state estese al resto del Paese, le ZES hanno attratto molti investimenti sia cinesi che stranieri grazie soprattutto al regime fiscale preferenziale: negli anni 90 per esempio l’imposta sui redditi d’impresa era del 15% mentre nel resto della Cina si arrivava al 33%. Alle zone economiche speciali si sono poi aggiunte una serie infinita di Economic and Technology Development Zones, Parchi Industriali, etc. che offrivano simili vantaggi fiscali, a volte anche più “aggressivi” per esempio attraverso la discutibile prassi di vendere diritti d’uso sul terreno a 100 per poi restituirne 30 o 40 (in Cina la proprietà privata dei terreni non esiste e quindi il governo concede ampi diritti d’uso per lungo periodo di tempo).
Le ZES come volano per le zone economicamente poco sviluppate
Si è arrivati ad un certo punto a contarne qualche centinaio ed il governo centrale fu costretto ad intervenire per razionalizzare. Lasciando stare per un momento le zone economiche speciali originarie (le più famose Shenzhen e Xiamen) che appunto fungevano più che altro da terreno sperimentale per riforme ma erano già collocate in zone a forte crescita, è innegabile che altre ZES abbiano avuto la funzione di volano per quelle zone a più bassa intensità di sviluppo economico. Una volta raggiunta una massa critica di aziende manifatturiere nella ZES, ai loro margini si è creato un indotto di fornitori di beni e servizi che ha contribuito a far crescere le entrate fiscali per la provincia nel suo complesso, controbilanciando quindi i ridotti introiti dagli sgravi fiscali concessi nella ZES.
Uno strumento utile anche per il Sud Italia
Senza voler paragonare le nostre regioni meridionali allo Henan o al Sichuan, un modello basato sulla creazione di zone economiche speciali in queste regioni va a mio avviso preso in considerazione. Se ne è parlato negli anni scorsi ed è anche stato oggetto di proposte da parte di Svimez (associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). Certo, l’idea non è priva di problemi pratici:
- In primis, andrebbero disegnate in modo da evitare di incappare nel divieto comunitario degli aiuti di stato, cosa non impossibile visto che in Polonia - che fa parte della UE - esistono tali zone.
- Non andrebbero create “cattedrali nel deserto”: una cosa è creare una ZES in una regione dove ci sono possibilità che funga da volano per tutto il tessuto economico circostante, un’altra crearne in una zona senza infrastrutture di supporto e senza tradizione manifatturiera.
Ma il modello secondo me va tenuto in considerazione, l’unica cosa sono i tempi: con una disoccupazione giovanile al sud ormai al 40% forse bisogna fare più in fretta.