'L'umorismo è la chiave per capire il mondo. E vendere milioni di libri'
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'L'umorismo è la chiave per capire il mondo. E vendere milioni di libri'

'L'umorismo è la chiave per capire il mondo. E vendere milioni di libri'

'L'umorismo è la chiave per capire il mondo. E vendere milioni di libri'
Il fisico è quello che ti aspetti da un appassionato corridore che, tra le altre cose, è stato anche portatore della fiaccola olimpica a Pechino nel 2008. L’umorismo è quello che si trova nei suoi romanzi, al netto di ciò che l’accento tosto da Henan ren (persona proveniente dalla provincia dello Henan) permette di cogliere quando parla invece di scrivere. E la capacità di raccontare storie, a partire anche dai dettagli più minuti, è evidentemente un suo talento naturale, visto che sa tenere col fiato sospeso cento studenti ventenni italiani parlando dei militari che stazionano in piazza Duomo a Milano.
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Eccolo, Liu Zhenyun: chioma folta, piumino nero firmato, l’aria seria, ma compiaciuta, di chi strappa risate senza bisogno di ridere a sua volta. Arrivato a Milano nel corso di un vero e proprio tour europeo della durata di venti giorni, con destinazione alcuni degli Istituti Confucio del continente tra cui quello dell’Università degli Studi di Milano, ha incontrato pubblici diversi presentando i suoi due romanzi tradotti in italiano (“Divorzio alla cinese”, edito da Bompiani, e “Oggetti smarriti”, pubblicato da Metropoli d’Asia) e due lungometraggi tratti da suoi libri (“I’m not Madame Bovary” e “A word is worth ten thousand words”). In quattro giornate fitte di appuntamenti, ha anche fatto visita agli studenti dell’Università degli studi di Bergamo, dove insegnano due delle sue traduttrici italiane, Maria Gottardo e Monica Morzenti.

Scrittore prolifico, amatissimo in patria, vincitore del premio Mao Dun, il più alto riconoscimento letterario cinese, Liu Zhenyun è anche ricco. Almeno stando alle classifiche compilate in Cina sugli scrittori che possono vantare le più alte entrate legate ai diritti di pubblicazione delle loro opere, nelle quali Liu si è collocato più volte tra i primi venti del paese.

Lui, a domanda, scherza: “Ci sono certamente scrittori più di successo di me in Cina. Chessò: Confucio, Sima Qian [considerato il fondatore della storiografia cinese, compilatore delle Cronache di uno storico, vissuto tra il II e il I secolo a.C.]. I loro libri hanno una circolazione maggiore della mia”. Poi nicchia: “Non so su che base quella classifica sia stilata, nessuno ha mai contattato né me né il mio editore, chi ha fatto quei calcoli si è basato sulle copie vendute e su una stima dei diritti d’autore che dovrei avere per questo ricevuto. In ogni caso, gli scrittori non sono ricchi, i veri ricchi sono gli uomini d’affari”.

Lui, nel suo piccolo, ha potuto mandare la figlia a studiare cinema negli Stati Uniti (sua è la regia di “A word is worth ten thousand words”) e si concede cene innaffiate a whisky. Delle sue origini provinciali, e delle difficoltà di chi vive ai margini della società, non si è però dimenticato: pochi come lui sanno raccontare la Cina umile dei contadini e dei lavoratori migranti nelle grandi metropoli, che sono infatti i protagonisti dei due romanzi tradotti in italiano.

Altrettanto bene, peraltro, Liu sa tratteggiare i personaggi di più alto rango, come politici e imprenditori. Ma è chiaro dove l’autore trovi i suoi eroi: Li Xuelian, la contadina protagonista di “Divorzio alla cinese”, è “una contadina che ha subito un torto e che per vent’anni si impegna per riparare questo torto. È una donna che per vent’anni conduce la sua battaglia per dire una sola frase, per affermare il fatto di non essere una poco di buono, ma nessuno l’ascolta”. Sebbene la donna fallisca nella sua missione “dal punto di vista del tempo, perché in 20 anni non ottiene nulla, da un altro punto di vista non ha perso, perché è riuscita a portare sempre a livelli sempre più alti la sua istanza. Se ci fossero più persone come lei, che non tacciono quando subiscono un torto, se la maggioranza non fosse silenziosa, ma si alzasse in piedi e parlasse, il mondo sarebbe diverso”. Ecco perché per Liu Zhenyun la sua Li Xuelian “è un’eroina”.

Non si può dire esattamente lo stesso di Liu Yuejin, il protagonista di “Oggetti smarriti”, stralunato cuoco di cantiere che viene derubato di tutti i suoi averi. “Un oppresso della Cina in rapidissimo sviluppo. La questione chiave di questo romanzo è il rapporto tra i personaggi, o meglio il fatto che i personaggi vorrebbero avere rapporti con Pechino, la città in cui sono migrati, ma Pechino, e i pechinesi, non vogliono avere rapporti con loro”. Per questo il sottobosco di muratori, gangster, truffatori e mendicanti che popola il romanzo “riescono ad avere rapporti solo tra di loro, migranti che la città non assorbe, anche se sono loro a costruirla. A Pechino mi capita spesso di passare vicino a cantieri di palazzi altissimi e di sentire dalla cima qualcuno che urla qualcosa a un operaio a terra in henanhua, il dialetto della mia provincia”.

A presentare i tratti più negativi nei libri di Liu Zhenyun sono gli esponenti degli strati privilegiati della società. Che siano politici di basso livello, imprenditori del mattone o funzionari pubblici, chi detiene il potere non sembra meritarlo. Una generale corruzione morale che l’autore mostra già nelle caratteristiche fisiche: “Nei paesi ricchi, i ricchi sono magri, ma nei paesi poveri i ricchi sono grassi. Prima non eravamo grassi, perché ci muovevamo sempre per lavorare. Ora invece vedo sempre più persone grasse nelle strade”. A lui, invece, piace muoversi, “faccio jogging regolarmente. Così ci sono rimasto male quando, per le Olimpiadi di Pechino, mi hanno proposto di portare la fiaccola e io pensavo di correre da solo da piazza Tian’anmen allo Stadio olimpico. Poi ho scoperto che eravamo decine di migliaia a correre, e che ognuno di noi avrebbe percorso giusto 20 metri. Quando un giornalista mi ha chiesto che esperienza fosse stata, gli ho risposto che non ho fatto in tempo nemmeno a cominciare a correre che avevo già finito”.

Secondo Liu Zhenyun, lo humour è un elemento fondamentale dei suoi romanzi, che lui applica a tre livelli: “in letteratura, c’è lo humour linguistico, quello situazionale, e quello più importante, che nasce dalle relazioni tra i personaggi. Un critico una volta ha detto che io uso lo strumento dell’umorismo per rappresentare le caratteristiche profonde dei personaggi, gli elementi più difficili dei personaggi. Credo che sia vero. Se i miei romanzi sono tradotti in più di 20 lingue è perché piacciono. Per piacere, bisogna sapere scrivere, ma anche capire il mondo e le persone. Penso di piacere perché esprimo quello che le persone vorrebbero dire ma non hanno detto, perché esprimo i sentimenti che le persone avrebbero voluto esprimere. Metto in scena quello che non si osa mostrare, sentimenti e percezioni sottili. E lo faccio spesso utilizzando l’umorismo”.

Se nel fare tutto questo si senta limitato dal sistema di controllo che ancora regna nell’industria culturale cinese, Liu Zhenyun non lo dice. Del resto, nel suo tour è accompagnato anche da un piccolo manipolo di funzionari della cultura cinesi.

“Ogni anno ogni editore cinese pubblica un migliaio di libri, e in tutta la Cina ci sono tantissimi editori. Difficile perciò per la censura leggere tutto quello che viene prodotto in letteratura, - spiega lui -. Più facile, invece, è controllare i film, perché per leggere un libro ci vogliono diversi giorni, per guardare un film bastano due ore. Questo è un problema che riguarda i registi, non me. D’altra parte, gli spazi di espressione in Cina sono molto ampi, basta vedere quanto sia sviluppato l’internet cinese, quanto chiunque possa esprimere il proprio punto di vista su Weibo e WeChat”.

Inutile ribattere che, pur riconoscendo l’estensione degli spazi e delle arene di espressione in Cina, nemmeno sui social del paese è possibile dire qualsiasi cosa si voglia. Liu Zhenyun sta già pensando ad altro, e conosce bene l’arte di rispondere tutt’altro alle domande che non gli piace sentire.

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