Il coronavirus spaventa. Molto. Spaventa il mondo e spaventa l’Africa. Quel continente che sta cercando di fare il meglio possibile per difendersi dalla pandemia. Mette in campo tutti i mezzi possibili. Cerca solidarietà internazionale, perché come dice il premier dell’Etiopia, Abiy Ahmed, “proprio come il virus non conosce confini, anche le nostre risposte non dovrebbero averne”.
Il virus non conosce confini, significa che non ci sono “untori” da additare, semmai esperienze positive da copiare. Ma l’Africa ha bisogno di più: interventi economici per evitare il collasso dei loro sistemi sanitari, dell’economia che da sola, con il solo intervento dei Paesi non è in grado di sopportare lo shock a cui sarà sottoposta. Se il mondo dovrà affrontare una recessione durissima, l’Africa potrebbe essere costretta ad affrontare la depressione. Di questo, il continente, non ha bisogno.
Se tutto ciò fa paura, la solidarietà non deve averne, la speranza è l’unica arma che può sconfiggerla. Spesso si parla di un continente vicino al baratro, eppure da quella terra arrivano, ogni giorno, messaggi di speranza e solidarietà lanciati verso l’Italia. Arrivano dallo Zambia, dal Malawi, dal Kenya, dal Senegal, dalla Costa d’Avorio e da numerosi altri paesi. Uomini, donne, bambini e bambine postano sulla rete questi messaggi di sostegno.
Dunque nessun untore, nessuna paura per quei bianchi che vivono in questi paesi. Sì, forse, in molti ironizzano apostrofando i bianchi con la parola “corona”. Un modo per scongiurare, per esorcizzare un dramma che potrebbe colpirli, come ha già fatto, duramente. Nessuna violenza. Nessuno è additato come l’untore. Lo sanno gli abitanti di questo continente. Sanno perfettamente che si devono attrezzare, come già stanno facendo, per affrontare la pandemia. Lo fanno a loro modo. Anche inviando messaggi di solidarietà a quella parte di mondo che ora è alle prese con un’emergenza senza precedenti.
Semmai sperano che la solidarietà che inviano oggi, potrà tornagli con gli interessi. Altro che caccia agli untori. Come i medici somali che si sono messi a disposizione per venire in Italia e dare una mano. Quei medici, quello che sanno lo hanno imparato da insegnanti italiani.
Quei docenti sono sati per loro un punto di riferimento professionale e umano. Per questo, ora che l’Italia vive un momento delicato, loro si sono messi a disposizione. “Vi aiutiamo noi – hanno detto 14 medici somali dell’università nazionale di Mogadiscio – vi offriamo la nostra piena disponibilità a lavorare al fianco degli operatori impegnati contro il nuovo coronavirus”. La loro storia ha commosso molti e, allo stesso tempo, ha ricostruito un legame storico tra Somalia e Italia. Altro che untori. E chi conosce la Somalia sa bene in quale condizioni versi il Paese, in guerra da oltre trent’anni, che non riesce a trovare pace.
Eppure quei 14 medici si sono messi a disposizione di un Paese amico. E poi c’è il lavoro costante, che non è mai cessato delle ong italiane, non hanno abbandonato il continente. Sono rimaste lì ad aiutare come possono, hanno “convertito” le loro attività all’emergenza. Anche qui un esempio significativo ce lo offre in Costa d’Avorio la Comunità Abele, che opera a Grand Bassam l’antica capitale coloniale del Paese. La Comunità Abele non ha interrotto la sua attività, ma l’ha adeguata alle giuste restrizioni sulla socialità tra le persone. Quando si dice che la sanità in questi paesi è fragile è vero.
Quando si dice che mancano anche i semplici mezzi di protezione, le mascherine, è vero. Quando si dice che manca persino l’acqua, figuriamoci il sapone, è vero. Allora la Comunità Abele cosa ha deciso di fare? Con i suoi giovani, le donne, che tutti i giorni frequentano la comunità, si è messa a cucire le mascherine, imparando da un ente di Grenoble attraverso la rete, come si fa, e a preparare il sapone. Materiali da mettere a disposizione della popolazione. Le attività normali sono state convertite all’emergenza. Ivoriani che si mettono a disposizione degli ivoriani.
Sono state messe in campo azioni di sensibilizzazione verso la popolazione, attraverso presidi informativi e fontane per il lavaggio mani, più che mai preziose in questi momenti. E la Comunità Abele, nel caso la situazione peggiorasse rapidamente, alcuni dei loro spazi potranno essere messi a disposizione per le necessità legate dell’emergenza. Il loro motto – scrivono in un post su Facebook – recita: “vicino ai più deboli”, a un metro dunque, non a un chilometro.
L’epidemia può colpire duramente gli slum e le baraccopoli dove si concentra la maggior parte degli abitanti delle megalopoli africane. Ed è lì che lavorano le nostre ong e i nostri missionari. Ciò che si teme di più, infatti, è il contagio negli slum. Nelle baraccopoli di Nairobi, capitale del Kenya, si calcola vivano oltre 2 milioni di persone. La densità abitativa è enorme. Le condizioni igieniche, quando va bene, sono precarie, se non assenti. Le persone vivono ammassate in baracche di pochi metri quadrati. In questi contesti non è possibile che le misure di sicurezza e di contenimento possano essere applicate. Se l’epidemia dovesse scoppiare in questi contesti sarebbe una catastrofe ed è quello che temono di più le autorità di governo.
Per dovere, ma solo di cronaca, non possiamo non dire che alcuni episodi isolati si siano verificati, in cui i bianchi siano stati indicati come gli untori. Come è accaduto in Etiopia. Episodi denunciati dall’ambasciata americana ad Addis Abeba. Ma subito il premier etiope Ahmed è intervenuto, usando i mezzi televisivi, per dire una cosa molto semplice, ma dirompente: “Il virus non deve essere associato a un Paese o a una nazionalità. In una comunità globale, ciascuno di noi deve essere il custode dell’altro. Non permettiamo alla paura di derubarci della nostra umanità”.