L’Africa è tornata a essere terra di conquista. Durante la Guerra Fredda gli equilibri erano dettati dalle strategie delle due grandi potenze, America e Urss. Crollato il muro di Berlino su tutto il continente si sono scatenate numerose guerre che non avevano più nessun legame con gli amici di un tempo ma, semplicemente, rappresentavano un tentativo di riposizionarsi e trovare nuove sponde attraverso l’accaparramento delle risorse naturali. Finito, non del tutto per la verità, quel periodo, ora è “guerra” commerciale, ma anche militare, di tutti contro tutti. L’Occidente ha deciso che è giunto il momento di arginare l’influenza cinese che, ormai, ha le mani su tutto il continente, nessun paese escluso.
Vecchie pretese e nuovi padroni
L’unica potenza rimasta ancorata ai propri principi “coloniali o neo-coloniali” è la Francia. La politica di Parigi verso quella parte dell’Africa francofona ha resistito a tutti i presidenti africani, o meglio i dittatori africani hanno resistito al cambiamento dei presidenti francesi. Hanno resistito perché nulla è cambiato durante tutta la Quinta Repubblica in termini di politica verso le ex colonie.
A farla da padrona sull’intero continente, tuttavia, è la Cina. Nemmeno a dirlo. Nell’ultimo vertice sino-africano, Pechino ha deciso di stanziare altri 60 miliardi di dollari. I dittatori africani hanno esultato, nonostante siano consapevoli che stanno svendendo i loro paesi, il debito dello stato, a Pechino. Ma sono altrettanto consapevoli che le casse personali si gonfiano ulteriormente a scapito della popolazione. Non è un caso che i Pil crescono in maniera considerevole, mentre gli indici di sviluppo umano rimangono sempre al palo.
L’egemonia cammina sulla seta
Un piano di investimenti, quello di Pechino, che si inserisce nel piano strategico diplomatico-economico della “nuova via della seta”. Basta questo dato: negli ultimi 15 anni l’interscambio commerciale tra la Cina e il Continente africano aumenta annualmente del 20%. Tutto ciò non ha lasciato indifferente l’Occidente, in particolare gli Stati Uniti d’America. Il segretario di stato Mike Pompeo ha spiegato che quando “da Pechino si presentano con offerte che sembrano troppo belle per essere vere, spesso non lo sono”. Ma gli Usa non si sono limitati a battute o critiche. Il Senato americano, infatti, ha approvato la creazione di una nuova agenzia finanziaria per lo sviluppo: Us International Development Finance Corporation (Usidfc).
Nell’intento americano questa agenzia dovrebbe essere in grado di stanziare 60 miliardi di dollari di investimenti diretti. È evidente lo scopo: recuperare un equilibrio all’interno del Continente africano. Almeno gli americani ci provano. Da non trascurare, poi, il fatto che tornare a essere protagonisti in Africa, significa anche rafforzare la presenza militare, visto che la Cina ha messo “gli scarponi” sul terreno. E altri ci stanno provando. Come la Russia.
Armi dalla Russia
L’attenzione di Mosca non è affatto trascurabile, visto anche l’ultimo tour del ministro degli Esteri Sergej Lavrov che ha visitato paesi estremamente strategici, per posizione geografica e per risorse strategiche possedute, come l’Angola, La Namibia, il Mozambico, l’Etiopia e lo Zimbabwe. Paesi con i quali Mosca ha stretto accordi di collaborazione in ambito minerario, di cooperazione militare e per stabilire zone economiche di libero scambio. La Russia non può offrire, come la Cina, prodotti di consumo, ma armi sì e probabilmente in abbondanza.
Ora il centro strategico militare della Russia è a Bangui, nella Repubblica Centrafricana. Ma l’annuncio più importante fatto da Lavrov è quello di realizzare un centro logistico in Eritrea, nell’area strategica del Corno d’Africa, già affollato di presenze straniere. A Gibuti, con loro basi, sono presenti i francesi, gli americani e i cinesi. Per Pechino è la prima base militare fuori dai confini cinesi. Ma stanno anche pensando di costruirne una sull’oceano Atlantico, in Namibia.
Ma a questo discreto fazzoletto di terra guarda con attenzione anche l’Arabia Saudita, che ha avuto una parte fondamentale nell’accordo di pace tra Etiopia e Eritrea. Un interesse in funzione anti iraniana e, dunque, strategico per la partita che Riad sta giocando in Yemen, sull’altra sponda del Mar Rosso. In questo quadro si sta inserendo con prepotenza anche la Turchia, con numerose visite, in Somalia in particolare, del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Dove ancora circola il franco
In Europa solo i francesi tengono saldi i legami con le ex colonie, che non sono da meno in termini geopolitici e minerari, rispetto ad altri paesi del continente. Un modo per mantenere saldi i legami è la moneta. Nelle ex colonie francesi, infatti, la moneta corrente è il franco Cfa. La Comunità economica dell’Africa occidentale (Uemoa) adotta proprio questa moneta, che viene stampata a Parigi. Ma non solo. Al Tesoro francese questi paesi devono depositare il 50% delle loro riserve in valute straniere. Ciò significa che questi paesi non hanno la completa disponibilità della massa monetaria. Dal punto di vista militare la Francia, attraverso l’operazione Barkhane, intende sostenere le ex colonie nella lotta al terrorismo islamico, in particolare nella regione del Sahel. Non si può dimenticare, tuttavia, che proprio dal Niger proviene il 75% del fabbisogno francese di uranio per alimentare le proprie centrali. Una risorsa che deve essere accuratamente protetta.
La terra dei dittatori
Al di là della retorica “aiutiamoli a casa loro”, di soldi in Africa - miliardi di euro o di dollari che siano - ne girano molti. E a questi si aggiungono le risorse naturali di cui l’Africa è ricca. Il Continente è certamente uno dei più ricchi al mondo e, quindi, diventa estremamente appetibile, e oggetto di conquista da parte di chi, di risorse non ne ha, ma ne ha la forza economica e politica per impadronirsene. Ma anche, grazie ai dittatori – in Africa ve ne è una sovrabbondanza - che ne approfittano per arricchirsi personalmente. Dittatori tanto anacronistici da inchiodare un Continente a uno stadio di sviluppo primordiale. Insomma, interessi comuni che si intrecciano. L’Africa più che di beneficenza o cooperazione ha bisogno di giustizia.
A dimostrazione di questo ci sono alcuni dati significativi, diffusi dall’Africa Development Bank, che spiega come spedire una macchina dal Giappone ad Abidjan (Costa d’Avorio), costa circa 1500 dollari. Per mandare la stessa vettura da Abidjan ad Addis Abeba costa 5000 dollari. Per movimentare un containeir da Shanghai in Cina al porto di Mombasa in Kenya ci vogliono circa 28 giorni. Lo stesso container per raggiungere Bujumbura (Burundi) dal Kenya di giorni ne impiega 40. In sintesi solo il 15-18% degli scambi africani avviene tra Paesi africani.
Crescita del Pil, diminuzione delle opportunità
I Pil dei paesi africani crescono molto, a volte a due cifre, ma i tassi di sviluppo umano stagnano, tanto che nell’Africa sub sahariana il 40% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Non lo dico io, ma l’undicesimo rapporto sulla governance in Africa, realizzato dalla fondazione del miliardario sudanese Mo Ibraihim, che combina 102 indicatori, che si possono sintetizzare in quattro macro aree: sviluppo umano, opportunità economiche sostenibili, partecipazione e diritti umani, legalità e sicurezza. Il rapporto conclude con questa considerazione: “Nonostante la forte crescita del Pil registrata negli ultimi dieci anni, l’Africa non è riuscita a creare nuove opportunità economiche per la sua popolazione di giovani in forte espansione”.