Lo spettro della fame si sta abbattendo su tutto il Corno d’Africa. E a poco sono serviti gli appelli, uno su tutti quello del segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, che si è rivolto alla comunità internazionale affinché intervenga in maniera massiccia per evitare il peggio in Somalia. Rimane l’incubo. Rimane lo spettro di ciò che accadde nel 2011, nonostante gli “accorati appelli”, quando morirono più di 260mila persone per fame in Somalia. E che ciò accada, ancora e senza che smuova le coscienze del mondo libero, libero dalla fame, nel secondo millennio, è inaccettabile e colpevole.
Cibo e acqua, le migrazioni nel Corno d'Africa
E in quelle aree del Corno d’Africa le migrazioni, a ondate, per ragioni climatiche, sono all’ordine del giorno, quasi una transumanza animalesca, in cerca del bene prezioso che è l’acqua e dunque il cibo. Eppure, in questa catastrofe annunciata e che, prevedibilmente, si verificherà, c’è un’umanità silenziosa, fatta di volontari e organizzazioni non governative, molte italiane, che nel silenzio, e nella costanza di un lavoro quotidiano, che non ha bisogno di clamori e appelli, ma di aiuti concreti, continuano a lavorare per cercare, dove possono e come possono, di rendere accettabili le condizioni di vita delle persone.
In Sud Sudan ci si rifugia nelle paludi
In Sud Sudan, la carestia si somma al persistere del conflitto armato, in una guerra civile infinita. Le stime parlano chiaro: 1,5 milioni di persone sono a rischio e 100mila persone stanno morendo di fame. I volontari di Medici con l’Africa Cuamm sono andati nelle zone colpite con l’obiettivo di identificare le strategie migliori per affrontare il dramma. Giovanni Putoto, responsabile della programmazione di Cuamm, e Giovanni dall’Oglio, esperto in sanità pubblica, arrivati nello stato di Unity si sono trovati in uno scenario inquietante e un missionario messicano li ha indirizzati dove la gente si rifugia e scappa dalla guerra: “Cercate gli sfollati nelle paludi, nelle isole. Donne, bambine vecchi, sono lì”. In canoa raggiungono l’isola di Niat dove incontrano le prime famiglie di sfollati. “Ci spiegano che sono scappati un mese fa da Kock e Adok, aree dove infuriano gli scontri. Non si fidano di tornare, né di trasferirsi nei villaggi posti lungo le strade, perché considerati insicuri. Le paludi sono il loro rifugio, il luogo che per secoli ha offerto riparo e protezione in situazione di pericolo. Ma la vita qui è durissima. Il poco cibo è derivato dalla pesca, a cui si dedicano gli adolescenti maschi. È sempre insufficiente, lo si vede dallo stato di malnutrizione dei bambini e degli stessi adulti. Non si coltiva. Non ci sono scuole, né centri sanitari per curare donne e bambini. Non c'è rete telefonica, né elettricità. L'unico mezzo di trasporto è la canoa. Trasportare cibo, persone, farmaci e malati ha un costo enorme”. E sono centinaia le isole come Niat, come migliaia le persone e le famiglie nascoste nelle paludi. I due volontari raccontano: “Non ci tireremo indietro: assistenza nutrizionale e sanitaria e trasporto dei malati gravi saranno le attività principali. Solo spingendoci fin qui sarà possibile raggiungere l'ultimo miglio, dove c’è più bisogno del nostro aiuto”.
In Somalia si rischia la carestia
Poi c’è la Somalia dove 6,2 milioni di persone – circa la metà della popolazione – ha bisogno di aiuti umanitari d’urgenza. Ma i numeri sono ancora più drammatici se li guardiamo attraverso gli occhi dei bambini: 363 mila minori sono già stati colpiti dalla malnutrizione, 71mila sono affetti da forme di malnutrizione grave a causa della siccità. Secondo il Cluster Nutrizionale per la Somalia, se non verranno forniti aiuti con urgenza i numeri potrebbero triplicare, raggiungendo i 944mila casi nel 2017, di cui 185mila casi di malnutrizione grave. In questo momento, secondo le Nazioni Unite più di 50mila bambini rischiano di perdere la vita. E le condizioni, in particolare in Puntland, una delle aree maggiormente colpite dalla siccità, peggiorano di giorno in giorno. E i volontari di Save The Children sono lì. “Quello a cui stiamo assistendo sul campo – racconta Hassan Saadi Noor, direttore dell’ong per la Somalia – ci dice che siamo ormai a un punto di non ritorno e il netto peggioramento dei casi di malnutrizione indica che la carestia non è lontana. Siamo sull’orlo di una catastrofe simile a quella del 2011 e forse anche peggiore considerando la gravità delle condizioni attuali. La comunità deve intensificare i propri sforzi per fare in modo che quel tragico momento storico non si ripeta e sappiamo che agire efficacemente in questa fase può fare realmente la differenza”. E l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) ha chiesto alla comunità internazionale lo stanziamento di oltre 850 milioni di dollari per fornire immediati aiuti salvavita alle popolazioni.
In Kenya è emergenza siccità
L’onda della fame, però, non si ferma. E colpisce anche il Kenya, che ha dichiarato lo stato di disastro nazionale. Da Nairobi arriva la richiesta di aiuto, rivolta a chiunque possa farlo, per mitigare gli effetti del fenomeno. Attualmente 2,7 milioni di persone in 23 distretti patiscono la fame. Amref Health Africa in Kenya ha mobilitato il suo team di risposta all’emergenza siccità. L’obiettivo è intervenire in alcune delle contee più colpite con attività che rispondano all’emergenza idrica e igienica, con interventi medici, con la somministrazione di integratori alimentari supplementari e terapeuti. Così come gli interventi in Kitui, dove il 90% della popolazione vive nelle campagne e di queste solo il 28% ha accesso a fonti di acqua potabili entro i due chilometri. Eccoli qui gli operatori umanitari in trincea: tutti dovrebbero essere al loro fianco.