Coppie gay, uteri in affitto e adozioni. Non sempre vietare è retrogrado

Le Sezioni unite della Cassazione si sono pronunciate su una complessa vicenda che riguarda una coppia omosessuale ansiosa di avere un figlio, un paio di madri surrogate e due gemelli che si ritrovano con due padri. Una sentenza che ha spinto la comunità Lgtb a gridare al ritorno al Medioevo, ma piace alle femministe. E se si leggono le motivazioni, le ragioni dei giudici sono più che chiare

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Sigrid Olsson / AltoPress / PhotoAlto
Una coppia gay con i figli
 

Se un giorno per caso dimenticaste una delle leggi fondamentali dell’Essere, cioè quella per cui “non esistono soluzioni semplici a problemi complessi”, quel giorno tornate a leggere la storia seguente. Una storia normale, per il mondo in cui viviamo.

Poi però contate fino a cento prima di dire da che parte state e partire a razzo con un “secondo me”. Non tutto nella vita è materia di sondaggio, e se non sempre tutto ciò che è giusto è anche legale (la conquista del diritto di voto anche per le donne è una conquista relativamente recente) vale anche il contrario: non basta che una cosa sia legale perché sia giusta, basta pensare alle leggi razziali del ‘38. Dunque, leggete fino in fondo. E solo a quel punto provate a pensare se avete veramente una opinione così sicura sulla faccenda.

La storia

Una coppia di due uomini italiani, volendo dei figli ma non potendo ricorrere qui in Italia a “madri surrogate” che sono vietate dall’art. 12, comma 6°, della legge n. 40 del 2004, andò in Canada dove invece ebbe la collaborazione gratuita e in quel Paese altrettanto legale di due donne: una delle due mise a disposizione il proprio ovocita, che fu fecondato col seme di uno degli uomini il quale divenne da quel momento il futuro padre “biologico” dell’embrione; l’altra offrì il proprio utero per portare a termine la gravidanza dopo aver accolto l’embrione medesimo, anzi gli embrioni perché a nascere furono due gemelli. Avendo preventivamente rinunciato le donne a ogni diritto genitoriale, le autorità canadesi riconobbero automaticamente entrambi gli uomini come “padri” dei bambini.

Tornati in Italia, però, essi dovettero constatare che l’Anagrafe del loro Comune di residenza (Trento) accettò di trascrivere come “padre” nei suoi registri solo il genitore biologico. Ne nacque un lungo contenzioso davanti alla magistratura italiana che in primo grado diede ragione al Comune (trascrizione vietata in Italia: punto) e in Appello invece alla coppia (in effetti sarebbe vietata, ma il mondo cambia: il Comune si adegui). Inevitabile arrivare in Cassazione, che proprio a causa della delicatezza della materia ha deciso di pronunciarsi la scorsa settimana a Sezioni Unite (sentenza dell'8 maggio 2019 n.12193). Per concludere in sostanza con due asserzioni che hanno almeno il merito di fissare dei confini.

La prima: ammesso e non concesso il principio che consentirebbe a un bambino di avere per “genitori” a tutti gli effetti entrambe le persone che di fatto lo amano e lo crescono, di qualunque sesso siano, potrebbe anche essere giusto, ma in Italia non è sempre automaticamente lecito e in questo caso specifico, finché la legge è questa, lecito non è. Anzi è proprio “contrario all’ordine pubblico”: non inteso come tutela dalla rivolte di piazza, ovviamente, ma appunto come insieme di princìpi fondamentali da rispettare.

La seconda: poiché bisogna prendere atto che una situazione simile è oggi non solo possibile ma destinata a presentarsi di nuovo, allora ricordiamo - scrivono in sintesi i Giudici della Suprema Corte - che per consentire a un genitore ‘non biologico’ di essere a sua volta ‘padre’ del figlio del proprio compagno la sola strada oggi praticabile in Italia è quella della “adozione in casi particolari” (prevista dall’art.  44, comma prima, lett. D, della legge n. 184 del 1983). Che non avviene in automatico ma è sottoposta alla valutazione - caso per caso - del Tribunale dei Minorenni del distretto in cui si trova il minore. A cui la coppia in questione, se vuole, potrà ora rivolgersi.

Gli interessi da tenere presenti, prima di esprimere una opinione, sono un numero superiore a quello che si sarebbe tentati di dire a caldo. Perché in primo luogo c’è il bene del minore, certo, che la comunità internazionale riconosce concordemente come prioritario da molti anni. Ma la traduzione in concreto di questo interesse deve fare i conti con le “regole” - in materia di adozione, di famiglia, di ordine pubblico nel suo insieme - del Paese in cui la famiglia risiede. D’altra parte il Paese in questione, l’Italia, fa parte di una istituzione come l’Unione europea in cui Paesi membri hanno in molti casi ‘regole’ non solo più larghe ma proprio diverse.

Ma la domanda più importante da farsi è esattamente questa e cioè la stessa che proprio un genitore, lupus in fabula, dovrebbe farsi quando parla ‘con’ i propri figli: dire di sì a tutto è sempre una benedizione della libertà e ‘maglie larghe’ significa di per sé giustizia? Rendere ‘legale’ una cosa perché qualcuno la desidera e tecnicamente si può fare significa sempre essere democratici? Se anche solo guardiamo questa vicenda - solo per esempio, ce ne sarebbero altre - con gli occhi della donna che ha portato per nove mesi due gemelli dentro di sé, accettando di sparire per sempre dalla loro vita, siamo veramente sicuri di avere assistito a una cosa giusta e non a un essere umano trattato come pura ‘macchina’, ancorché consenziente, in nome del desiderio di un altro?

La Cassazione, nella sentenza che qui abbiamo riassunto, ricorda che le ‘maglie strette’ della legge italiana difendono in questo caso (anche) la “dignità della donna”. Specie perché quando si apre una porta poi si accetta il rischio che entri anche ciò che non si vuole: oggi ci sono Paesi in cui si può ‘prestare’ l’utero gratis, ma allora domani - sempre in nome della libertà - perché non dietro compenso? E, ove si potesse, perché mai a quel punto vietare a una libera impresa di organizzare questa prassi su larga scala? E quali sarebbero a quel punto le ‘fattrici’ più a buon mercato?

Gli antichi greci avevano una parola: hybris. Per dire che i limiti al desiderio umano esistono già nell’ordine delle cose, prima ancora che nella legge, e che superarli non sempre porta bene. A volte ci trasforma in eroi, ma a volte in Icaro. E forse la Cassazione a Sezioni Unite, a modo suo, con questa sentenza ci invita almeno a pensarci su.

Leggi qui la sentenza



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