Ho trascorso le estati della mia infanzia in un piccolo angolo dell’Egeo, colmo di profumi che dalla montagna arrivavano a fondersi con gli odori del mare. Mi sembrava di essere lontana da tutto e tutti. All’epoca, l’isola di Samos era parecchio lontana dall’essere una delle isole più amate dai turisti e anche la frequenza dei trasporti lo dimostrava: atterravano pochi aerei e la nave che partiva da Piraeus impiegava minimo 12 ore per giungere sulle nostre coste. Se è vero che Samos è diventata via via più turistica nel corso del tempo, la stessa cosa non si può dire per il luogo in cui andavamo noi, in cui mia nonna aveva la casa.
A “Ayia Paraskevi” è rimasto tutto uguale, quasi indenne alle orde dei turisti. Se con gli anni sono state predisposte la luce elettrica e persino l’acqua corrente – quest’ultima ancora oggi non c’è sempre!, – non sono arrivati, per fortuna, gli stabilimenti balneari e i locali. Ancora oggi si può godere di quest’angolo dell’isola così spartano e tranquillo, eccetto per alcuni giorni di fine luglio quando si festeggia “Ayia Paraskeui” - la Santa del paese - e la gente giunge da tutta l’isola per trovarsi, cucinare e mangiare insieme nel cortile della piccola chiesa.
Qualche anno fa, però, iniziammo ad osservare una nuova tipologia di “visitatori” a “Ayia Paraskevi”. All’inizio era solo una barca di tanto in tanto, poi divennero almeno due ogni mattina, ma prestando attenzione si poteva comprendere che non erano vere e proprie barche, quanto piuttosto dei gommoni arrivati dalla Turchia, a soli pochi chilometri di distanza da dove siamo cresciuti noi.
La quiete della mattina a “Ayia Paraskeui”, in cui fino a poco tempo prima potevi sentire solo la nonna che chiacchierava con le amiche, veniva bruscamente interrotta dal rumore degli elicotteri della guardia costiera greca che monitoravano l’arrivo di queste persone. Dozzine di donne, uomini e bambini che giungevano a terra e iniziavano la lunga camminata verso la capitale dell’isola, a più di 20 chilometri di distanza, lungo una strada collinare sotto il sole che cocente. Quando passavano davanti alle case di “Ayia Paraskeui”, gli abitanti cercavano di dar loro qualcosa come un po’ d’acqua, una sedia per riposarsi o da mangiare. Persino quelli meno empatici non potevano esimersi dal dare loro qualche genere di conforto: si trattava di un dovere morale.
Mi ricordo un giorno in cui andando verso la capitale in macchina con mio padre vedemmo un gruppo di persone per strada – uomini, donne anche incinte, bambini – e decidemmo di accompagnare in macchina alcuni di loro, quelli più sofferenti, fino alla città, per accorciare almeno la durata del loro cammino. Grazie alla loro conoscenza dell’inglese, riuscirono a raccontarci che venivano dalla Siria ed erano in fuga da mesi. Una volta al porto, vedemmo un piccolo gruppo di persone che erano già arrivate; un poliziotto ci vide e ammonì: “Ma cosa fate? Non sapete che è pericoloso accompagnarli? Ora vi lascio andare, senza nessuna conseguenza, ma non rifatelo altrimenti un mio collega vi potrebbe arrestare”. Mio padre, medico di professione, aveva prestato giuramento di Ippocrate e rimasto incredulo davanti a quella scena gli rispose: “Non si lasciano delle persone in mezzo alla strada a soffrire, a morire!” ma il poliziotto non cedeva.
La verità è che io e mio padre eravamo un po’ “naïf”.
Ultimamente, in Italia e in tutta Europa, veniamo a conoscenza di tante storie di persone perseguitate per aver cercato di soccorrere migranti, con il solo fine di aiutare un altro essere umano; basti pensare a Benoit Ducos, guida alpina, che in Francia è stato denunciato a marzo di quest’anno (e rischia fino ai 5 anni di carcere) per aver portato in ospedale una donna nigeriana, Marcela che all’ottavo mese di gravidanza era entrata in travaglio o a chi a Ventimiglia viene criminalizzato solo perché distribuisce pane ai migranti in attesa al confine.
Una situazione che non solo è surreale, ma anche piuttosto triste. Cosa penseranno le prossime generazioni di noi? Quale giustificazione daremo? Dovremmo rispondere loro che abbiamo lasciato che tutto ciò accadesse e abbiamo continuato le nostre vite quotidiane?
Insieme, possiamo fare qualcosa per giungere a questa conclusione.
ActionAid e altre organizzazioni, hanno deciso di promuovere “Welcoming Europe”: un’iniziativa dei cittadini europei che mira a raccogliere un milione di firme in almeno sette stati membri dell’Unione entro il febbraio 2019.
Tre gli obiettivi:
- decriminalizzare la solidarietà;
- creare passaggi sicuri e ampliare i programmi di sponsorship privata rivolti ai rifugiati;
- proteggere le vittime di abusi e rafforzare i meccanismi di tutela e di denuncia nel caso di sfruttamento e violazioni dei diritti umani.
Se il fatto che la solidarietà umana venga criminalizzata ci sembra surreale, lo dovrebbe essere ancor di più il non proteggere le persone che subiscono soprusi e violenze. Le misure previste per garantire una tutela effettiva delle vittime di abusi – compresi i migranti – già esistono ma bisogna implementarle. La garanzia di questi diritti deve essere assicurata sempre, soprattutto quando gli abusi sono perpetrati da parte della Guardia di frontiera e della guardia costiera europea, dal personale degli stati membri o di paesi terzi coinvolti nelle operazioni ai confini esterni. Chiedere il rispetto delle norme – e dei principi basilari dell’umanità – da parte di tutti non deve essere un’utopia.
Possiamo farlo insieme. Su http://welcomingeurope.it/
Se anche tu, come me, pensi che possiamo essere un’Europa in grado di accogliere, un’Europa che non si limita ad essere un’unione finanziaria ma che rimane faro di civiltà e umanità, in grado di trovare delle soluzioni il più possibile giuste ad una situazione complessa, aderisci a questa importante iniziativa dei cittadini europei. In diversi momenti della storia è toccato ad altri Stati accogliere persone in fuga da guerre e da persecuzioni: in questo momento storico tocca a noi. Informati sui contenuti dell’iniziativa e firma anche tu qui. Esercita il tuo potere di cittadino europeo per chiedere una nuova normativa sulla gestione dei flussi migratori e sull'accoglienza.
Cambia le cose, per loro, per noi, per le future generazioni.