(di Daniele Atzori)
L'incontro a Washington tra il Presidente degli Stati Uniti Obama, il presidente egiziano Mubarak, il re di Giordania Abdallah, il primo ministro israeliano Netanyahu e il presidente della Autorita' Nazionale Palestinese Mahmoud Abbas suggella l'inizio dei colloqui diretti che, stando alle dichiarazioni dei promotori, dovrebbero presto portare alla nascita di uno stato palestinese. Naturalmente, gli ostacoli al processo di pace sono ancora enormi. Una parte della societa' palestinese e della societa' israeliana si oppongono con forza agli accordi di pace. Pochi giorni fa, Rabbi Ovadia, considerato l'autorita' spirituale del partito ultra-ortodosso israeliano Shas, ha invocato la peste sul popolo palestinese. Lo Shas e' un raggruppamento decisivo per la coalizione di Netanyahu: Eli Yishai, il leader dello Shas, e' vice primo Ministro e ministro degli Interni. Nel frattempo, Hamas, tramite l'attentato del 31 agosto che ha ucciso quattro cittadini israeliani a Hebron, ha dimostrato la propria volonta' di "partecipare" ai negoziati con il linguaggio che le e' piu' consono: quello della violenza. Da un lato, Hamas vuole dimostrare che l'Autorita' Nazionale Palestinese non e' in grado di mantenere ordine e sicurezza in Cisgiordania. Dall'altro, vuole provocare i coloni israeliani, in modo da far loro esercitare pressioni sul proprio governo per bloccare i colloqui. Hamas, insomma, sta lanciando chiari messaggi ai leader riuniti a Washington.
L'attentato di Hebron non fa che acuire uno scetticismo verso il processo di pace che e' diffuso anche nei media arabi. Su "Al Jazeera", Jamal Elshayyal afferma che Mubarak, Abbas, re Abdallah di Giordania e re Abdallah dell'Arabia Saudita non godrebbero di alcun sostegno popolare. Elshayyal accusa i regimi di essere "corrotti", dichiarandosi certo che i negoziati non porteranno a nulla. Si afferma poi, implicitamente, la solita narrativa secondo cui i governi dei paesi arabi moderati, per il loro tentativo di trovare una soluzione pragmatica al conflitto, starebbero tradendo le masse arabe. Questa posizione e', purtroppo, abbastanza diffusa tra l'opinione pubblica araba: ogni tentativo di dialogo con Israele viene interpretato come un tradimento. Su "Al Sharq al Awsat" Bilal Hassen, analista politico palestinese, critica vigorosamente il leader dell'Autorita' Nazionale Palestinese Abbas. Hassen nota che i colloqui appena apertisi non rappresentano un progresso, bensi' il ritorno al punto zero degli accordi di Oslo del 1993. Secondo l'opinionista palestinese, infatti, Mahmoud Abbas, che gioco' un ruolo chiave ad Oslo, dovrebbe interrogarsi sul perche', dopo diciassette anni, si stia ritornando ora al punto di partenza. La leadership palestinese dovrebbe dunque condurre una rigorosa autocritica, anche per comprendere il proprio isolamento interno. Non solo la societa' palestinese sarebbe divisa a questo proposito, ma anche l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) sarebbe spaccata al proprio interno. In particolare, Hassen pone un problema di legittimita', dal momento che il comitato esecutivo dell'OLP, che doveva autorizzare la riapertura dei negoziati con Israele, si e' riunito senza raggiungere il quorum di nove membri su diciotto. Di questi nove, solo cinque hanno approvato la decisione di riaprire colloqui diretti con Israele. La questione, lungi dall'essere un semplice cavillo legale, rivela la profonda frammentazione che investe non solo la societa' palestinese nel suo complesso, ma anche la stessa OLP in Cisgiordania. Hassen e' inoltre convinto che i potenziali esiti (che considera entrambi negativi) dei colloqui, siano solo due: la nascita di uno stato palestinese subordinato a Israele o il fallimento dei negoziati. Abbas e', infatti, accusato di aver riaperto i colloqui senza che nessuna delle precondizioni palestinesi sia stata accettata. Israele, infatti non ha bloccato gli insediamenti dei coloni (in particolare a Gerusalemme) e non ha accettato di ritirarsi all'interno dei confini pre-1967, cioe' i confini che aveva prima del conflitto durante il quale occupo' la Cisgiordania (le antiche regioni ebraiche di Giudea e Samaria, governate dalla Giordania fino al 1967) e la Striscia di Gaza (governata dall'Egitto fino al 1967).
Il problema, secondo Netanyahu e buona parte dell'opinione pubblica israeliana, e' che Israele ha bisogno di confini difendibili. Dunque se, secondo i palestinesi, il punto di partenza dei negoziati dovrebbe essere il ritorno ai confini precedenti il 1967, Netanyahu sostiene che la priorita' consiste nel garantire confini che effettivamente tutelino la sicurezza di Israele. Inoltre, Netanyahu ha accettato la possibilita' della formazione di uno stato palestinese a fianco di Israele, ma ha sostenuto la necessita' che questo stato sia demilitarizzato, che non diventi quindi un alleato di Hezobollah e dell'Iran, dal quale lanciare attacchi contro Israele. Netanyahu vorrebbe quindi mantenere una presenza israeliana ai confini orientali dello stato palestinese, in modo da evitare l'importazione di armi che potrebbero poi essere usate per sferrare attacchi contro Israele. Un altro punto di divergenza concerne lo status dei rifugiati: secondo il governo israeliano, riconoscere uno stato palestinese implica il riconoscimento, da parte dei palestinesi, di Israele come stato del popolo ebraico. Da questo consegue che i profughi palestinesi, e i loro discendenti, che lasciarono quello che ora e' Israele durante il conflitto del 1948 non avrebbero il diritto di tornare a vivere in Israele. Allo stesso tempo, lo stato palestinese dovrebbe accettare la presenza di una minoranza ebraica in Palestina, come Israele ospita una minoranza araba. Per i palestinesi, un punto importante e' invece l'evacuazione di tutti gli insediamenti successivi al 1967. Un'altra questione calda riguarda lo status di Gerusalemme che, secondo Netanyahu, non puo' essere divisa e deve rimanere la capitale dello stato ebraico.
Quanto detto finora evidenzia la difficolta' di condurre in porto le trattative. Per questo, non e' sicuramente il momento di nutrire eccessive aspettative sulla positiva conclusione del processo di pace. Eppure, vi sono molti segnali che fanno ben sperare. La collaborazione tra le forze di sicurezza israeliana e quella palestinese si sta rivelando efficace nel garantire la sicurezza, nonostante il recente quadruplice omicidio perpetrato da Hamas. Inoltre, i paesi arabi moderati, in testa Egitto e Giordania, hanno profuso un grande impegno per rendere possibili i colloqui tra israeliani e palestinesi. Inoltre, secondo recenti sondaggi, sia l'opinione pubblica israeliana sia quella palestinese sembrano convinte della necessita' di due stati che vivano in pace, fianco a fianco. In particolare, sondaggi condotti nei territori palestinesi nel mese di agosto da Nader Said, dell'Arab World for Research and Development e da Nabil Kukali, del Palestinian Center for Public Opinion, fanno ben sperare, rivelando il pragmatismo della maggioranza dei palestinesi, sia in Cisgiordania sia a Gaza, decisi a riconoscere lo stato di Israele in cambio della creazione di uno stato palestinese. La grande difficolta', sia per Abbas che per Nethanyahu, consiste pero' nel convincere le proprie fazioni interne ad accettare soluzioni che, anche se non ottimali, rappresentano comunque decisivi passi in avanti. Come ha affermato il presidente Obama, questo e' forse il momento di essere "speranzosi, cautamente speranzosi, ma speranzosi". L'analista Said Aly, direttore dell'Al-Ahram Center for Strategic and Political Studies del Cairo, indica il modello da seguire nei trattati di pace stipulati da Egitto (nel 1979) e Giordania (nel 1994) con Israele: nessuno dei due trattati era l'ideale per questi paesi, eppure entrambi sono stati in grado di garantire pace e stabilita'. Quello che serve e', dunque, una buona dose di pragmatismo. Cio' che purtroppo sembra certo, e' che nel prossimo periodo i nemici della pace rialzeranno la testa, tentando in tutti i modi di bloccare ogni possibilita' di accordo.
Settembre 2010