(di Nicola Graziani)
Il diario di un soldato italiano, da poco scoperto vicino a Viterbo, mette una volta per tutte la parola fine ad una delle piu' longeve querelle storiche sul Novecento italiano. Gli italiani usarono i gas in Etiopia, ed ora esiste anche la regina delle prove: il racconto di un testimone oculare. Un memoriale, il suo, ritenuto talmente pericoloso dal Regime che la sua pubblicazione fu scoraggiata dalle Autorita' dell'epoca. L'uso dei gas e' stato negato per decenni dall'esercito italiano. Solamente nel
L'autore delle memorie si chiamava Elvio Cardarelli. Un tipico italiano medio dell'epoca: nascita in provincia (a Vignanello, vicino Viterbo), lavoro da cameriere, adesione spontanea al Regime, emigrazione in Francia e a Montecarlo. Studi non terminati ma una certa dimestichezza con le eleganze della lingua italiana. Cartolina precetto il 12 febbraio 1935, destinazione Etiopia. Infine la morte per una malattia tropicale non meglio precisata, quindici giorni dopo il ritorno a casa. Gli episodi di cui Cardarelli da' conto sono tre, contenuti in un contesto di 500 pagine e quattro diversi quaderni. Il primo risale al 28 febbraio 1936, quando il Generale Graziani ha appena terminato la conquista di Negelli. Cardarelli e' sull'Alagi, all'altezza del passo di Falagan, da poco sgomberato dalla Guardia Imperiale del Negus. "Scaliamo il colle, scendiamo poi una vallata ricca di vegetazione", scrive nel suo giornale, "e ci troviamo nella zona colpita dai gas che i nostri aerei hanno gettato qualche mese fa quando il terreno che ora attraversiamo pullulava di abissini. L'effetto deve essere stato terribile. Lo certificano le centinaia di carogne che, rattrappite ed impressionanti, sono sparse ovunque".
Quattro giorni dopo una seconda testimonianza, ancora piu' cruda. La colonna dell'esercito cui Cardarelli e' stato associato attraversa il luogo di una battaglia che si e' svolta nel marzo precedente, sulla piana di Mai-Chio. Qui "il terreno diviene lussureggiante ed io scorgo di attraverso le erbe alte i corpi neri di indigeni rattrappiti dal fuoco dei nostri lanciafiamme. Non emanano cattivo odore, ma sono orrendi a vedersi". E' sulle montagne vicine alla piana di Mai-Chio che Cardarelli constata gli effetti dei gas sulla vegetazione. "Mi colpisce un fatto difficile a spiegarsi: alberi altissimi, che sembra siano stati privati del fogliame della corteccia e dei rami piu' piccoli da un violento incendio. Il fuoco poi ha investito non solo una e poche di queste piante, ma migliaia di esemplari". Cardarelli non ha visto direttamente le bombe cadere (anche se nota sul terreno i serbatoi in cui venivano contenuti i composti chimici). Assiste pero' ad una rappresaglia contro la popolazione civile la cui ferocia - se la descrizione della foresta fa venire in mente il napalm usato dagli americani in Vietnam - ricorda da vicino episodi della Seconda Guerra Mondiale.
La mattina del 3 dicembre 1935, sulla strada tra Dolo' e Macalle', la colonna di Cardarelli scopre i corpi orrendamente mutilati si quattro militari italiani. "Sfregi orribili sfigurano i volti , le membra sono distaccate dai corpi, da cui brani di carne sono stati staccati a colpi di coltello", ricorda. Il pomeriggio nota "una grossa colonna di fumo nerastro" a te chilometri di distanza. Sente anche "il sinistro ticchettio della piccola Breda e le scariche piu' violente della Fiat pesante". "Credo ad un attacco improvviso da parte nemica, ma resto sorpreso dalla calma che regna al campo. Domando e mi rispondono che in seguito ai fatti del mattino alcune pattuglie erano partite alla ricerca degli aggressori. In un villaggio erano stati accolti da scariche di fucileria. Era stato allora dato l'ordine di distruggere il villaggio con il fuoco insieme ad altri due, siti poco distante, con tutti gli abitanti (donne e bambini compresi) affinche' nessuno sfuggisse all'effetto del fuoco purificatore. Le mitraglie avevano pensato a chiudere ogni via d'uscita". Non bisogna aspettare la "Grotta dell'Iprite" di Gaia Zeret-Lalomedir ed il marzo del 1939 per scoprire gli orrori della Guerra di Etiopia.
Da due settimane tornato a casa, alla fine della ferma, Cardarelli muore di una malattia sconosciuta. Lascia il diario alla fidanzata ed alla madre, che lo portano in tipografia per farlo stampare: era l'unica cosa che restava del loro Elvio. Passano i mesi ed il tipografo, alla fine, glielo restituisce. Qualcuno, lascia intendere, ha fatto sapere che e' meglio lasciar perdere. Classico esempio della mano leggera che il regime si poteva permettere di usare nel momento del massimo consenso. Il diario viene restituito, infatti, e non distrutto. Oggi e' l'unica testimonianza diretta da parte italiana di quegli orrori. Un documento fondamentale.
Gennaio 2009