(di Geminello Alvi) - Sul New York Times, meno di una settimana dopo l’annuncio della Cina di voler flessibilizzare il cambio del renminbi col dollaro Paul Krugman scrive “che, lungi dal rappresentare un passo nella giusta direzione, l’annuncio cinese era un esercizio di mala fede, una maniera di sfruttare la moderazione degli Stati Uniti. Per stemperare la polemica, l’amministrazione di Obama ha usato toni diplomatici nel suo tentativo di persuadere il governo cinese a terminare le sue cattive abitudini. Adesso i cinesi hanno risposto adattandosi solo al tono americano per evitare di affrontare la sostanza del loro rimprovero. In breve stanno giocando”. Sono parole in controtendenza con le primissime reazioni degli analisti e delle borse all’annuncio cinese. E tuttavia corrispondono a come da non pochi americani viene giudicata in pratica la mossa dei cinesi.
L’estenuante, causidico e così orientale avanti e indietro dei cinesi sulla questione del cambio col dollaro non s’è affatto concluso dopo il loro l’annuncio di voler “flessibilizzare” il loro cambio. Al contrario, nelle parole e immediatamente nei fatti, si è verificato un sali e scendi del renminbi, che non dà alcun conforto agli americani. Del resto anche le stime della più parte degli analisti sull’apprezzamento sul dollaro da qui a un anno, al massimo del 4%, restano poco incoraggianti. Tali comunque da far forse contenti gli europei, che vi potevano vedere almeno consolidata la svalutazione dell’euro, e dunque la competitività delle loro merci nei confronti di quelle cinesi. Non gli Stati Uniti.
Il consueto ragionamento per il quale col loro surplus i cinesi comprano comunque il debito americano si è intanto di molto indebolito. Prima si poteva pensare che, seppure distorcendo il commercio, i cinesi fornivano gli Stati Uniti di credito a buon mercato. “Ma proprio adesso noi siamo inondati di cheap credit; cosa ci manca è invece una sufficiente domanda di beni e di servizi per generare i posti di lavoro di cui abbiamo bisogno. E la Cina, insistendo in un surplus artificiale, sta aggravando questo problema”, replica Krugman nella sua rubrica. In effetti è difficile dargli torto. Conferma dello squilibrio è che tra l’altro gli investimenti cinesi stiano viaggiando ormai quasi al picco del 50% del prodotto. Chi rimprovera di debolezza la leadership di Obama può aggiungervi pure questo argomento.
Giugno 2010