Washington che vende a Taipei una partita di armi per il valore di 6.4 miliardi di dollari, e suscita le ire di Pechino. La Cina che annuncia uno “sconvolgimento esteso ma mirato” del suo esercito. E, sullo sfondo, settimane in cui, tra antidumping e caso Google, polemiche sull’apprezzamento dello yuan e proclami sulla libertà d’espressione sul web, la temperatura delle relazioni diplomatiche tra il Dragone e l’Aquila si sta raffreddando sempre più. Ci sono tutte le premesse per chiedersi che cosa stia accadendo sulle due rive dello Stretto di Taiwan, e come tutto questo possa ripercuotersi da una parte all’altra del Pacifico: AgiChina24 lo ha chiesto a Fabio Mini e Giovanni Andornino, avvalendosi anche delle opinioni di un esperto di sicurezza con una conoscenza diretta della macchina militare cinese. Taiwan, com’è noto, è l’isola che diede rifugio ai nazionalisti di Chiang Kai Shek in fuga dalla Cina dopo la vittoria dei comunisti di Mai Zedong, nel 1949. L’isola viene ritenuta da Pechino parte integrante del suo territorio, ma ha sviluppato un sistema politico autonomo ed è legata agli USA dal “Taiwan Relations Act”, che obbliga l’America ad intervenire in caso di attacco. Nonostante le relazioni tra Pechino e la “provincia ribelle” siano notevolmennte migliorate da qualche tempo, il Dragone ha sempre dichiarato che un intervento armato non è da escludere.
“La vendita di armi a Taiwan non era un atto dovuto” spiega il Tenente Generale Fabio Mini. Già Capo di Stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa e al vertice delle operazioni di pace in Kosovo (KFOR), il Tenente Generale Mini intrattiene con la Cina un rapporto di lunga data: è stato il curatore dell’edizione italiana di “Guerra senza Limiti”, il libro dei due generali cinesi Qiao Liang e Wang Xiaosui che nel 2001 ha definito un nuovo approccio alle questioni strategiche, ed è stato insignito della medaglia “Ba Yi” della Repubblica Popolare Cinese. “Pur non conoscendo direttamente i termini contrattuali, è facile immaginare che se gli Stati Uniti non avessero rinnovato la fornitura di armi a Taiwan sarebbero incorsi in delle penali molto forti. Ma non si è trattato di un atto dovuto dal punto di vista politico, quindi perché incorrere nella reazione di Pechino? Secondo me oggi Stati Uniti e Cina vogliono confrontarsi: ecco che l’apertura del fronte di Google, dei diritti umani, il prossimo incontro di Barack Obama col Dalai Lama che non mancherà di suscitare altre polemiche, sono fronti sui quali i due si vogliono confrontare anche in maniera aspra, senza dare nulla per scontato, ma ovviamente evitando un’escalation, non dico dal punto di vista militare, ma strategico. Io penso che la guerra sia già in atto, quantomeno questo tipo di guerra. I due contendenti si stanno già scontrando, su binari che vanno ancora letti come indizi di pericolo, ma mandano comunque grossi segnali. Quello che sta praticando l’America è un vero e proprio contenimento delle capacità di proiezione cinese: siamo ancora alla Guerra Fredda; quella che c’era tra blocco sovietico e blocco occidentale adesso si è spostata sul Pacifico, e vede protagoniste Usa e Cina”.
Proprio nei giorni in cui è scoppiato il caso Google-Cina, erano circolate voci su un piano di riassetto dell’Esercito Popolare di Liberazione, definito dal direttore dell’Istituto di Ricerca dell’Università di Difesa Nazionale Ou Jianping “una riforma strutturale in grado di eliminare le inefficienze burocratiche; uno “sconvolgimento consistente, esteso ma mirato” anche attraverso un business plan che introduca criteri di gestione aziendale nelle spese agli armamenti. Ma secondo Giovanni Andornino, docente di Relazioni Internazionali dell’Asia Orientale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, mettere in relazione questa mossa con l’escalation delle ultime settimane è un ragionamento precipitoso: “Non credo che queste riforme vogliano rappresentare oggi un messaggio in particolare all'indirizzo di Washington, al di là di una concreta ricerca da parte di Pechino di strumenti utili a tutelare la propria sovranità, di cui è notoriamente gelosa. Già nel settembre 2009 il South China Morning Post riportava un previsto taglio di 700.000 effettivi, utile per trasferire risorse verso una migliore dotazione tecnologica dell'EPL. L'ultimo significativo documento ufficiale a nostra disposizione è il Libro Bianco sulla Difesa Nazionale pubblicato a Pechino nel 2008. Al suo interno il Presidente della RPC Hu Jintao (che presiede anche la Commissione Militare Centrale) indica le ‘nuove missioni storiche’ dell'EPL, che resta anzitutto l'esercito del Partito Comunista Cinese, più che dello Stato. La missione principale è la difesa della supremazia del PCC in Cina, e, a seguire, la tutela delle condizioni internazionali favorevoli allo sviluppo economico. E' comprensibile che per far questo, dato il mutato contesto internazionale, l'EPL abbia avviato riforme strutturali che consentano di proiettare forze sul teatro regionale e oltre. Le capacità di proiezione all’estero dell'EPL restano alquanto limitate, anche se vi sono segni di una crescente fiducia nei propri mezzi da parte degli stati maggiori”. “La modernizzazione dell’EPL era inevitabile” fa eco ad Andornino un consulente militare europeo, che in passato ha collaborato con una certa branca dell’esercito cinese e preferisce rimanere anonimo. “Negli ultimi trent’anni il miracolo economico cinese ha innescato un processo di metamorfosi socio-politico. Il Dragone ha gradualmente riconquistato nello scacchiere internazionale l’antica posizione di Paese di Mezzo, messa a dura prova durante il “secolo dell’umiliazione”, ed è uscita dalla crisi finanziaria del 1997 e dal tourbillon economico del 2009 con una crescita dell’8.7%: si poteva prevedere che, a questa ascesa, sarebbe seguito un considerevole investimento per il rafforzamento delle forze armate”. Con quali scopi? “In ambito internazionale, il potenziamento militare cinese genera nervosismo - continua il consulente - e questa tensione è generata in gran parte dalla non conoscenza; dell’economia cinese si dovrebbe sapere tutto, dell’esercito si sa poco o nulla. Spese e gestione dell’EPL sono generalmente voci ignote. Il rebus fa paura. Ritengo che la Cina voglia, sul fronte dei cieli, sviluppare sistemi di navigazione satellitari (GPS o il GALILEO) con tecnologia proprietaria per svincolarsi dalla dipendenza dal technology transfer, ed essere così preparata a rispondere agli attacchi di una eventuale guerra informatica. In gergo, la Cina vuole attrezzarsi nell’eventualità di una cyber war dotandosi di una propria intelligence che sfrutta un cyber war affair system all’avanguardia”.
E proprio di cyberguerra si è parlato negli ultimi giorni con l’esplodere del caso Google e l’entrata in campo del Segretario di Stato Hillary Clinton, che ha di fatto aperto un nuovo fronte della politica estera statunitense con la tutela della libertà d’informazione sul web: “Attenzione, gli USA hanno mostrato un irrigidimento in relazione alla censura, ma non hanno mai parlato di ‘attacco’ dalla Cina in termini di sicurezza cibernetica” sottolinea Giovanni Andornino. “È noto che hacker cinesi attaccano da tempo, come avverte un rapporto dell’MI-5, il servizio segreto britannico, pubblicato da Financial Times, ma non si possono formalmente collegare al governo di Pechino. Quando la Clinton attacca Pechino lo fa quindi parlando di censura (e sostenendo Google), non di sicurezza. Questa distinzione è fondamentale perché sul tema della sicurezza cibernetica Usa e Cina hanno interesse in un dialogo congiunto. Sulla censura, la Cina no”. La capacità di proiettarsi sui mari è, per la Cina, la seconda frontiera, che si declina attraverso la forma della ‘twin oceans strategy’, Indiano e, ovviamente, Pacifico. Gli obiettivi, secondo il nostro esperto anonimo, sono molteplici: “La protezione delle rotte marittime cinesi (ben il 70% del PIL cinese viaggia infatti via mare), la disputa aperta con il Giappone per la sovranità sul Mar della Cina, eccetera. Il programma marittimo risponde inoltre alla necessità – paventata da alcuni militari cinesi, che in verità potremmo definire un po’ paranoici – di tutelarsi contro una possibile invasione territoriale. Non bisogna dimenticare che, nel corso degli ultimi anni e parallelamente al potenziamento della propria marina, per paura di essere colpita lungo i confini continentali, la Cina ha sottoscritto numerosi accordi bilaterali con i paesi confinanti (Birmania, il Laos, Vietnam, area caucasica) che le garantiscono una specie di cuscinetto, alla stregua del limes romano”.
Ed ecco che il quadrante del Pacifico ritorna prepotentemente alla ribalta come il terreno di gioco fisico oltre a quello, virtuale, del cyberspazio: “Nel contenimento che l’America sta adottando verso la Cina è fondamentale lo spiegamento delle forze strategiche nel Pacifico,- spiega il Tenente Generale Fabio Mini- quindi il sostegno alla Corea del Sud, il fatto che gli Usa chiudano un occhio, o anche due, sul riarmo giapponese, e l’infiltrazione nell’arcipelago indonesiano col pretesto della famosa flotta fantasma di Al Qaeda, che di fatto ha rafforzato il contatto politico-militare degli americani coi paesi del Sud Est asiatico. Il Vietnam, ad esempio, nel contrasto sulle Isole Spratley, sta dalla parte americana. D’altra parte i cinesi si sono mossi in maniera molto astuta, in piccoli isolotti del Pacifico come le Samoa o Vanuatu, fornendo prestiti a tassi vantaggiosissimi a paesini molto importanti dal punto di vista del supporto strategico. Ecco, la presenza economico-monetaria è l’altro strumento dei cinesi: allargare pian piano l’area dello yuan, convincere molti paesi, e ad esempio i paesi arabi, a mettere nel loro paniere di valute di riferimento, anche altre divise come l’euro e lo yuan”. Il contrasto che è emerso su Taiwan, insomma, al di là degli annunci su un ammodernamento dell’esercito preventivato da tempo, potrebbe essere l’ennesima spia di tutte queste tensioni. Che secondo Mini possono diventare potenzialmente pericolose: “Il grande rischio è che questi episodi facciano decidere ai cinesi anche un cambiamento di strategia industriale. In che senso? Per adesso loro stanno creando le premesse per uno shift economico basato sulla domanda interna e non vogliono investire molto in armamenti sofisticati; se invece cominciamo ad assistere a provocazioni o sollecitazioni, prima o poi ci sarà una frangia interna che chiederà che la Cina si doti di nuovi armamenti. Ecco allora che si assisterà alla costruzione di altri missili balistici, di portaerei, di sottomarini nucleari, iniziando una corsa che, per i cinesi, sarà una corsa a disperdere le risorse, ma che avrà lo stesso effetto anche sugli altri. Io non penso che il presidente Barack Obama voglia entrare in una nuova corsa agli armamenti, ma egli non rappresenta tutti gli interessi Usa; non rappresenta ad esempio gli interessi del Dipartimento di Stato, che ha ancora molti collegamenti con la vecchia amministrazione, con la vecchia mentalità. Questa componente ha un interesse nel fornire nuove armi a Taiwan, ma è la sola: una nuova corsa agli armamenti non è né l’interesse della Cina, né in quello degli Stati Uniti”.