(di Daniele Atzori)
La fuga del presidente tunisino Ben Ali ci spinge a chiederci se questo evento avra' un effetto domino, scatenando ondate rivoluzionarie in tutto il mondo arabo. Per rispondere a questa domanda, e' opportuno considerare non solo quanto forti siano le tensioni che agitano le societa' arabe, ma anche quanto deboli siano gli stati arabi che rischiano di esserne travolti. Secondo Machiavelli, la natura dello stato puo' essere rappresentata dalla figura mitologica del Centauro, meta' uomo e meta' bestia. In termini gramsciani, il lato umano rappresenta la sfera del consenso, mentre la bestia simboleggia la coercizione. Lo studioso arabo Nazih Ayubi ha sostenuto, nel suo ormai classico Overstating the Arab State, che la forza degli stati arabi e' largamente esagerata, sia dai partner occidentali sia dalle stesse popolazioni. Gli stati arabi sono, in realta', profondamente deboli, poiche' i regimi non godono di consenso, ma si reggono prevalentemente su piu' o meno raffinate macchine di repressione del dissenso. Apparati costosissimi, che drenano immense risorse che potrebbero essere investite per lo sviluppo economico e la riduzione delle gigantesche sperequazioni sociali.
Il caso tunisino dimostra quindi proprio la profonda vulnerabilita' dello stato arabo. Le societa' arabe sono attraversate da laceranti tensioni sociali, etniche e religiose. Le differenze tra ricchi e poveri sono abissali. Il dissenso politico e' spesso punito, non di rado col carcere e la tortura. Sono diffusissime le tensioni tra etnie e confessioni religiose. E' sempre piu' evidente a tutti che le minoranze cristiane sono molto spesso pesantemente discriminate, quando non apertamente perseguitate. Eppure, i regimi al potere riescono a presentarsi all'occidente come gli unici possibili garanti dell'ordine sociale, come i migliori governi possibili.
La scelta dell'occidente e' stata, infatti, di sostenere gran parte di questi regimi, nella preoccupazione che il loro crollo porti allo scoperchiamento di temibili vasi di Pandora. Una paura che e', d'altronde, certamente giustificata; nel breve termine, questa soluzione ha garantito una sorta di equilibrio. La Tunisia di Ben Ali era portata ad esempio di un paese arabo stabile, in grado di coniugare un forte sviluppo economico con un'agenda laica e filoccidentale. Il problema e' che la crescita economica non ha fatto altro che ampliare il divario tra le classi sociali, inasprendo le diseguaglianze che nei paesi arabi sono particolarmente evidenti. La crisi tunisina di questi giorni ha poi portato di nuovo alla ribalta la cosiddetta 'lumpen intelligentsia', ovverossia un sottoproletariato urbano costituito di laureati e diplomati condannati alla miseria della disoccupazione e alla sottoccupazione. Il giovane tunisino Bouazizi, che si e' dato fuoco innescando la rivolta, e' diventato il simbolo di un'intera generazione. La vera bomba del Medio Oriente e' proprio quella demografica. In Egitto, come ha bene illustrato Carrie Wickham, questo folto gruppo sociale costituito di giovani arrabbiati e frustrati ha fornito i quadri del movimento islamista, e anche delle sue frange piu' violente ed eversive. In Tunisia, il partito islamista moderato Al Nahdah, che afferma di credere nel pluralismo e nella democrazia, e' stato da tempo messo fuori legge. La decapitazione dell'opposizione islamista ha impedito che il profondo malessere sociale trovasse un'espressione politica e che fosse quindi canalizzato all'interno delle istituzioni.
Le rivolte sociali di questi giorni non hanno quindi trovato forze politiche in grado di controllarle e governarle, ed hanno infine travolto le istituzioni con la forza di uno tsunami. Cio' che e' ancora piu' preoccupante e' che queste rivolte hanno dimostrato a tutta l'opinione pubblica araba che una sollevazione popolare e' effettivamente in grado di rovesciare un governo. Non bisogna dimenticare che in tutti i paesi arabi canali satellitari come Al Jazira, che godono di una larghissima diffusione, hanno trasmesso e ritrasmesso le scene di questi giorni, galvanizzando le masse e terrorizzando le elite al potere. E' diffusissima, nelle societa' arabe, la convinzione che i propri governi agiscano soltanto nell'interesse delle caste al potere, considerate corrotte, e di eventuali protettori stranieri. Oggi, per la prima volta, si ha la sensazione che l'esplosione violenta della rabbia popolare possa mettere in fuga i governanti. La protesta si sta quindi espandendo ad altri paesi arabi. In Algeria, Egitto e Mauritania, altri si sono dati fuoco, seguendo l'esempio del giovane tunisino Bouazizi. In Giordania ci sono state manifestazioni contro l'inflazione. A unificare vasti ed eterogenei strati sociali e culturali e' il senso di frustrazione e di disperazione, che porta anche intellettuali laici a sostenere addirittura l'Iran ed Hezbollah, nella convinzione che qualunque cambiamento rivoluzionario sia preferibile alla situazione attuale.
La rivolta tunisina ha insomma dimostrato quanto sia vera la tesi di Nazih Ayubi citata all'inizio, secondo cui gli stati arabi sono estremamente deboli, poiche' si reggono sulla coercizione e non sul consenso delle popolazioni. Nell'immediato, i regimi inaspriranno proprio la repressione, per paura che il contagio si estenda. Inoltre, lo spettro della rivoluzione portera' le elite che beneficiano degli attuali assetti di potere a serrare i ranghi in difesa dei propri governi, nel terrore che l'estendersi dei moti metta in pericolo consolidati equilibri politici e socio-economici. Nella cultura araba, il termine fitna esprime uno stato di disordine e di caos generalizzato, antitesi della citta' virtuosa. I governanti sfrutteranno quindi la minaccia della fitna incombente per giustificare il proprio potere e per legittimare misure autocratiche. Fitna che, poi, si declina in modi diversi in ciascun paese.
In Egitto, l'attentato contro i cristiani ad Alessandria e le crescenti confessioni interreligiose sono presi ad esempio per dimostrare la necessita' di un potere autocratico che faccia in qualche modo da arbitro tra le fazioni, impedendo al paese di sprofondare nel caos. In Giordania, la famiglia regnante si pone in misura analoga come baluardo contro le tensioni interetniche tra giordani e palestinesi. In Libano e' invece ormai evidente che nessuno e' in grado di esercitare un simile ruolo; sono in molti a pensare che una nuova guerra civile, magari innescata da eventi esterni, sia imminente. L'Algeria e' uscita da pochi anni da una devastante guerra civile, ma le tensioni non si sono spente. La fitna sembra, insomma, essere ovunque in agguato, e la fitna giustifica la repressione. In conclusione, gli eventi tunisini hanno importanza soprattutto perche' hanno reato un precedente. Nel 1979, Khomeini dimostro' a tutti la possibilita' del successo di una rivoluzione islamista: la spinta propulsiva di quell'evento non si e' ancora del tutto esaurita. La rivolta tunisina ha dimostrato che le masse furibonde e affamate possono cacciare un governante percepito come autoritario, corrotto e ingiusto. Per evitare un 1848 del mondo arabo, dalle conseguenze impreviste e terribili, una possibile soluzione consiste, forse, nell'allargare le basi democratiche degli stati, includendo nell'amministrazione della cosa pubblica anche forze politiche e sociali che ne sono ora completamente escluse. Costruendo il consenso tramite l'adozione di politiche condivise, forse i popoli arabi inizieranno a vedere nel Centauro dello stato sempre piu' un essere umano, e sempre meno una bestia.
Gennaio 2011