Roma - Il principio lo stabilì il diritto romano: il ricorso al popolo sovrano si chiamava, per l'appunto, appellatio ad populum, e consisteva nel diritto di chiunque a rivolgersi alle tribù e alle centurie per rovesciare la decisione infausta di un magistrato, o del senato che all'epoca veniva contestato con la stessa veemenza con cui in questa Repubblica si parla di Palazzo Madama. Senatores boni viri, Senatus mala bestia. Valeva, nei primi tempi, soprattutto per le decisioni prese in ambito giudiziario, ma lo strumento si prestava ad interpretazioni di fantasia giuridica, nonostante fosse regolato dalla legge Valeria-Orazia fin dal 449 avanti Cristo. Ne approfittò Tiberio Gracco, che da tribuno della plebe nel 133 volle indire un referendum tra i comizi tributi per destituire il collega e rivale Ottaviano. E così facendo introdusse negli ordinamenti, in un sol colpo, sia il referendum sia quello che i californiani pensano di aver inventato loro, ma non è vero, e cioè il recall vote. Purtroppo gli andò male, perché vinse la consultazione ma finì affogato nel Tevere su mandato del partito degli ottimati. La strada, ad ogni modo, era segnata ed in molti l'avrebbero percorsa con alterne vicende, non sempre positive.
Nizza e Savoia, anche i preti in processione dicono Sì
La storia dell'Italia unitaria inizia con un plebiscito, che peraltro nemmeno si svolge in Italia. Tra il 15 ed i 22 aprile del 1860 i cittadini maschi dotati di un censo adeguato sono chiamati alle urne nei territori transalpini di Nizza e Savoia che - lo hanno deciso a Plombieres Napoleone III e Camillo Cavour - dovranno passare sotto Parigi se Torino vuole mano libera dalla Lombardia all'Umbria. Gli aventi diritto vengono letteralmente scortati ai seggi dalla polizia, con una processione aperta dalle autorità ecclesiastiche. Alla fine il risultato è - si sarebbe detto un centinaio di anni dopo - bulgaro: 95 percento di Sì, 3 percento No, il resto voti dispersi. Nizza e Savoia sono francesi, i Savoia dilagano verso l'Italia. Il meccanismo pare funzionare, ma non sempre è così. La brutta sorpresa è sempre in agguato.
De Gaulle, dieci anni e due referendum
L'era De Gaulle, in Francia, è una parentesi di dieci anni aperta e chiusa con due referendum. Il 28 settembre 1958 il governo guidato dal generale, rientrato sulla scena al termine di un lungo esilio volontario dalla politica, presenta ai francesi il quesito secco e asciutto: "Volete la Quinta Repubblica?". Il nuovo ordinamento costituzionale, di fatto un semipresidenzialismo spinto, è stato messo a punto dal Comitato Consultivo Costituzionale, una sorta di commissione di saggi. Quattro francesi su cinque rispondono entusiasti all'appello, e De Gaulle si insedia all'Eliseo per restarvi a lungo. Più precisamente: fino ad un secondo referendum, nel 1969, convocato per dare l'imprimatur ad una riforma del Senato e dei poteri delle regioni. Sentendosi superiore a tutti gli oppositori, De Gaulle snobba chi invita a votare no. L'ultima sera della campagna elettorale, quando i fautori del no lanciano il loro appello a reti unificate, lui risponde subito dopo mandando in onda per i tre minuti assegnatigli il monoscopio della tv. Lui, del resto, è la Francia. Ma Parigi è fresca del Maggio francese, ed il ceto medio è stanco: proposta bocciata con il 52 per cento dei contrari, e questa volta l'abbandono della politica da parte del padre nobile della Repubblica è definitivo.Divorzio '74: l'Italia non è più cattolica
I referendum voluti da chi siede al governo sono forieri di svolte epocali, anche in Italia. Divorzio 1974: la Camera approva, la Democrazia Cristiana contesta. E si rivolge, attraverso il suo segretario Amintore Fanfani, ad una società che crede essere ancora quella degli anni '50, e che invece si è non poco secolarizzata dopo il boom ed il '68. Ne vien fuori una batosta: 59 a 41 in favore della legge Fortuna-Baslini. L'Italia, dirà due anni dopo il gesuita Padre Bartolomeo Sorge, non è più un paese cattolico in senso stretto.
Anche la Dc se ne accorge, anche Amintore Fanfani: un anno dopo la prima perde le amministrative, il secondo la segreteria, in favore di Benigno Zaccagnini. Profetico, spietato e schierato (per il divorzio), Giorgio Forattini già il giorno dopo il responso aveva disegnato una bottiglia di champagne con un No enorme sull'etichetta ed un tappo che saltava. Un tappo con la faccia di Fanfani.
Cile: no a sorpresa al generale
Il generale Augusto Pinochet, giunto al potere a Santiago nel 1973 dopo aver fatto saltare le cervella al presidente Salvador Allende, guidò il paese con pugno di ferro per i 15 anni successivi. Fino a quando, cioè, ebbe l'infelice intuizione di varare una nuova costituzione che gli avrebbe permesso di fatto di restare presidente a vita. Il regime traballava (lui stesso era scampato ad un attentato nel 1986) anche sotto il peso della crisi economica innescata dalle sciagurate politiche neoliberiste imposte al Cile dai "Chicago boys", chiamati dalla scuola di Milton Friedman. Lui aveva bisogno di una nuova legittimazione, ma nel segreto dell'urna (il regime ormai indebolito non riuscì ad opporsi all'invio di osservatori internazionali) i cileni gli dissero no, anche nettamente: 56 a 44 su cento. L'anno successivo dovette indire elezioni democratiche ed essendo quello il fatidico 1989, l'anno in cui i tiranni cadevano come birilli, a lui non restò che lasciare la Moneda, non senza aver avuto assicurazioni riguardo la sua impunità. Assicurazioni, queste ultime, che non lo aiutarono a sfuggire ad una messa in stato d'accusa per crimini contro l'umanità da parte del giudice spagnolo Garzon.Venezuela: a Chavez riesce la mossa del cavallo
La manovra che costa la presidenza a Pinochet riesce al venezuelano Hugo Chavez: nel 2004 sopravvive ad un recall vote organizzato plebiscitariamente dalle opposizioni, nel 2009 vara una costituzione sostanzialmente simile a quella introdotta dal dittatore cileno. Il popolo approva, e lui è così libero di ricandidarsi alla presidenza della repubblica senza limiti di mandato: da lì all'eternità. E così fa con l'assenso popolare. Una svolta per la storia del paese, che ancora adesso ne vive le conseguenze.
Grecia: Tsipras vince ma poi tratta
Particolare, infine, il caso del referendum greco del 2015, voluto dal governo di sinistra di Alexis Tsipras sul piano lacrime e sangue che Ue, Bce e Fmi vogliono imporre ad un paese stremato dalla crisi economica e con i conti in totale disordine. Il premier, che ha vinto le elezioni proprio sull'onda della protesta, più che mediare il piano lo ha subito, ed ora chiede ai greci che ne pensino. Il momento è cruciale, e lo sottolinea il fatto che sia la prima consultazione del genere che si svolge in Grecia dal referendum del 1974, che fece della monarchia ellenica una repubblica. Come tutti si attendevano, vincono sonoramente gli oppositori del piano. Vince Tsipras, ma poi la sorpresa: chi se ne va è il suo ministro delle finanze, il discussissimo Varoufakis che viene considerato a Bruxelles e dintorni alla stregua di un pericoloso parolaio. E a questo punto Tsipras tratta, e finisce per accettare la sostanza del diktat degli organi internazionali. Del resto il referendum era solo consultivo, quindi non vincolante. E grazie a questa sottigliezza Alexis Tsipras, erede della grande democrazia ateniese dove ci si rivolgeva direttamente al popolo per cacciare dalla polis il singolo cittadino sospettato di avere mire autocratiche e demagogiche, dimostra di aver fatto sua, due millenni dopo, l'amara lezione di Tiberio Gracco: mai mettersi, in nome del popolo, contro l'establishment. Una volta si chiamavano ottimati, oggi si chiamano eurocrati.Brexit: l'azzardo costa caro a Cameron
Il 2016 vede ben tre esempi di governi che si rivolgono al popolo per un referendum il cui esito appare scontato, ed invece si rivela un boomerang. Il primo il 23 giugno: David Cameron, giovane premier britannico alle prese con un partito conservatore recalcitrante, pone al popolo la domanda fatidica che da generazioni arrovella gli animi dei suoi concittadini: volete restare nell'Unione Europea oppure no? In molti hanno cercato di dissuaderlo, perché il rischio è grosso e anni di crisi hanno reso Bruxelles il facile bersaglio di populismi e nervosismi. Ma lui l'ha promesso, e la promessa deve mantenerla se non altro per non dare corda all'opposizione interna guidata da un Boris Johnson che ha avviato la sua carriera politica con due anni di corrispondenze al vetriolo, per il Daily Telegraph, proprio da Bruxelles. Campagna combattuta anche a suon di duelli acquatici sul Tamigi, un continente con il fiato sospeso, poi vince il Leave con 52 voti su cento. Lui ci rimette la faccia e il Numero 10 di Downing Street.
Ungheria: fallisce il no agli immigrati
Ad ottobre Viktor Orban, primo ministro a capo di un governo decisamente orientato a destra, chiama alle urne i suoi concittadini per una consultazione sulle quote di ripartizione degli immigrati sul territorio europeo. Si scrive immigrazione, ma anche qui si legge Europa: l'Ungheria è il paese leader del Gruppo di Visegrad: quattro paesi (gli altri sono Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) che puntano i piedi su praticamente tutto quello che viene deciso dai loro 23 partner a Bruxelles. L'esito appare scontato: quando i siriani riescono a bucare i sacri confini nazionali ungheresi, provenienti dalla Serbia (intanto si costruisce un muro per bloccarli), trovano nei campi magiari volenterosi giornalisti televisivi pronti a far loro lo sgambetto. Orban vuole sfruttare l'ondata per rafforzarsi con un boato, ed invece è poco più di uno sbadiglio: il referendum non raggiunge il quorum, ed è dichiarato nullo. Lui resta al suo posto, ma fa decisamente meno paura di prima.Colombia: uno schiaffo e un Nobel per Santos
Lo stesso giorno del referendum ungherese, il 3 ottobre, bocciatura anche per il governo colombiano, questa volta impegnato in una nobile missione di pace. E' l'ora di chiudere i conti con il passato, che in Colombia vuol dire cinque decenni di lotta contro la sanguinaria guerriglia marxista-leninista delle Farc. Agli insorti, responsabili di massacri e torture in quella che è stata una vera e propria sporca guerra contro il governo, il presidente Santos di fatto una moratoria, previo consenso del popolo. Ma il referendum, che tutti si aspettano sancisca il "puncto final", si conclude con un no. La "salida pactada" che anni prima ha dato un colpo di spugna alla dittatura cilena di Pinochet in cambio dell'impunità, non piace ai colombiani , anche se per una differenza minima di 65.000 voti. Santos ottiene di lì a poco il Nobel per la pace, come stimolo ed incoraggiamento a non mollare, ma la via del dialogo resta in salita.
Per approfondire:
Referendum abrogativo del 1974 in Italia