La parola al popolo da Tiberio Gracco alla Brexit
ADV
ADV
La parola al popolo da Tiberio Gracco alla Brexit
ADV
ADV
L'era De Gaulle, in Francia, è una parentesi di dieci anni aperta e chiusa con due referendum. Il 28 settembre 1958 il governo guidato dal generale, rientrato sulla scena al termine di un lungo esilio volontario dalla politica, presenta ai francesi il quesito secco e asciutto: "Volete la Quinta Repubblica?". Il nuovo ordinamento costituzionale, di fatto un semipresidenzialismo spinto, è stato messo a punto dal Comitato Consultivo Costituzionale, una sorta di commissione di saggi. Quattro francesi su cinque rispondono entusiasti all'appello, e De Gaulle si insedia all'Eliseo per restarvi a lungo. Più precisamente: fino ad un secondo referendum, nel 1969, convocato per dare l'imprimatur ad una riforma del Senato e dei poteri delle regioni.
Sentendosi superiore a tutti gli oppositori, De Gaulle snobba chi invita a votare no. L'ultima sera della campagna elettorale, quando i fautori del no lanciano il loro appello a reti unificate, lui risponde subito dopo mandando in onda per i tre minuti assegnatigli il monoscopio della tv. Lui, del resto, è la Francia. Ma Parigi è fresca del Maggio francese, ed il ceto medio è stanco: proposta bocciata con il 52 per cento dei contrari, e questa volta l'abbandono della politica da parte del padre nobile della Repubblica è definitivo.
 Pinochet elezioni 1989 (Afp)
 Pinochet elezioni 1989 (Afp)
Il generale Augusto Pinochet, giunto al potere a Santiago nel 1973 dopo aver fatto saltare le cervella al presidente Salvador Allende, guidò il paese con pugno di ferro per i 15 anni successivi. Fino a quando, cioè, ebbe l'infelice intuizione di varare una nuova costituzione che gli avrebbe permesso di fatto di restare presidente a vita. Il regime traballava (lui stesso era scampato ad un attentato nel 1986) anche sotto il peso della crisi economica innescata dalle sciagurate politiche neoliberiste imposte al Cile dai "Chicago boys", chiamati dalla scuola di Milton Friedman. Lui aveva bisogno di una nuova legittimazione, ma nel segreto dell'urna (il regime ormai indebolito non riuscì ad opporsi all'invio di osservatori internazionali) i cileni gli dissero no, anche nettamente: 56 a 44 su cento. L'anno successivo dovette indire elezioni democratiche ed essendo quello il fatidico 1989, l'anno in cui i tiranni cadevano come birilli, a lui non restò che lasciare la Moneda, non senza aver avuto assicurazioni riguardo la sua impunità. Assicurazioni, queste ultime, che non lo aiutarono a sfuggire ad una messa in stato d'accusa per crimini contro l'umanità da parte del giudice spagnolo Garzon.Particolare, infine, il caso del referendum greco del 2015, voluto dal governo di sinistra di Alexis Tsipras sul piano lacrime e sangue che Ue, Bce e Fmi vogliono imporre ad un paese stremato dalla crisi economica e con i conti in totale disordine. Il premier, che ha vinto le elezioni proprio sull'onda della protesta, più che mediare il piano lo ha subito, ed ora chiede ai greci che ne pensino. Il momento è cruciale, e lo sottolinea il fatto che sia la prima consultazione del genere che si svolge in Grecia dal referendum del 1974, che fece della monarchia ellenica una repubblica. Come tutti si attendevano, vincono sonoramente gli oppositori del piano. Vince Tsipras, ma poi la sorpresa: chi se ne va è il suo ministro delle finanze, il discussissimo Varoufakis che viene considerato a Bruxelles e dintorni alla stregua
 Tspiras e Varoufakis (Afp)
 Tspiras e Varoufakis (Afp)
di un pericoloso parolaio. E a questo punto Tsipras tratta, e finisce per accettare la sostanza del diktat degli organi internazionali. Del resto il referendum era solo consultivo, quindi non vincolante. E grazie a questa sottigliezza Alexis Tsipras, erede della grande democrazia ateniese dove ci si rivolgeva direttamente al popolo per cacciare dalla polis il singolo cittadino sospettato di avere mire autocratiche e demagogiche, dimostra di aver fatto sua, due millenni dopo, l'amara lezione di Tiberio Gracco: mai mettersi, in nome del popolo, contro l'establishment. Una volta si chiamavano ottimati, oggi si chiamano eurocrati.
Ad ottobre Viktor Orban, primo ministro a capo di un governo decisamente orientato a destra, chiama alle urne i suoi concittadini per una consultazione sulle quote di ripartizione degli immigrati sul territorio europeo. Si scrive immigrazione, ma anche qui si legge Europa: l'Ungheria è il paese leader del Gruppo di Visegrad: quattro paesi (gli altri sono Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) che puntano i piedi su praticamente tutto quello che viene deciso dai loro 23 partner a Bruxelles. L'esito appare scontato: quando i siriani riescono a bucare i sacri confini nazionali ungheresi, provenienti dalla Serbia (intanto si costruisce un muro per bloccarli), trovano nei campi magiari volenterosi giornalisti televisivi pronti a far loro lo sgambetto. Orban vuole sfruttare l'ondata per rafforzarsi con un boato, ed invece è poco più di uno sbadiglio: il referendum non raggiunge il quorum, ed è dichiarato nullo. Lui resta al suo posto, ma fa decisamente meno paura di prima.
ADV