È pace o tregua nel Pd? Tutti raccontano che nel partito si è siglata una pace tra i leader, dopo la settimana “orribile” in cui i ministri renziani hanno preso le distanze da Paolo Gentiloni su Bankitalia e Pietro Grasso ha lasciato il partito di Largo del Nazareno. Obiettivo: ridurre i danni nelle elezioni in Sicilia ed evitarli alle elezioni politiche. Foto, selfie e sorrisi di sabato sono stati tutti affannosamente mostrati dagli uffici stampa dem per convincere i giornalisti e, tramite loro, gli elettori, che nonostante le discussioni l’unità sia il valore assoluto nel Partito democratico. E allora sabato sul palco dell’assemblea programmatica, davanti ai ministri e a Matteo Renzi, è salito il presidente del Consiglio. E oggi è salito il segretario del partito. La premessa di entrambi è stata: “Sono d’accordo con te”. Ma leggendo in controluce i due discorsi, si capisce che alcune differenze restano e si capisce che, più che di pace, si può parlare di tregua nel principale partito che guida il governo. Ecco dunque una sorta di analisi comparata dei due interventi.
Il passato
Su questo l’accordo è di fondo, ma prefigura una visione leggermente diversa. Per entrambi è stato il Pd a salvare l’Italia negli anni della crisi. Ma Renzi lo ricorda con alcune frasi e fa risalire tutto, orgogliosamente, al 2014, anno del suo ingresso a palazzo Chigi. Gentiloni ne fa un elemento fondamentale del suo discorso: il Pd, rivendica, è e deve essere “credibile” per sua stessa natura. Più dei tanti che lo sfideranno alle prossime elezioni. E a questa credibilità, par di capire, deve restare legato come alle sue fondamenta, evitando dunque toni populisti che non appartengono al suo Dna.
I tempi della legislatura
Paolo Gentiloni lancia un vero e proprio appello, che parte dalla premessa della credibilità del Pd come perno del Paese: la legislatura deve avere una fine ordinata e questo è “un dovere verso le famiglie e le imprese”. No dunque a liti nella maggioranza o soprattutto tra Pd, maggioranza, governo e le altre istituzioni. Renzi praticamente non ne parla, favorito dal fatto di non essere il premier in questi ultimi pochissimi mesi che ci separano dal voto, è già in modalità campagna elettorale. È ovvio che il ruolo gli permette mani più libere, ma l’impressione è che non si curi di come andrà a finire la legislatura ma pensa già a come arrivare al voto: quali slogan, quali proposte, quali alleanze.
Il futuro
Paolo Gentiloni chiede anche per il futuro una campagna elettorale che un tempo Mitterrand avrebbe chiamato da “grande forza tranquilla”. E dunque all’attacco ma lasciando a casa i toni del populismo perché l’Italia ha bisogno soprattutto di una cosa: “Essere rassicurata”. Matteo Renzi pensa già agli slogan: meno tasse sul lavoro, più aiuti alle famiglie, mille euro all’anno ai genitori di figli minorenni, nessuna chiusura al salario minimo.
L’Europa
Paolo Gentiloni chiede una campagna elettorale alla Macron, europeista anche se non priva di critiche, perché “la Ue è la nostra casa”. Matteo Renzi prosegue nella sua critica alle istituzioni comunitarie, vuole che la Ue metta al centro non il fiscal compact ma maggiore attenzione al sociale, altrimenti, replica, il rischio è che “l’Europa non abbia un domani e dire questo non è da populisti ma da chi i populisti li vuole sconfiggere".
Populismo
Paolo Gentiloni mette in guardia dall’usare toni facili che parlano alla pancia del Paese e puntano sulla “propaganda della paura” e chiede ai dem di essere “credibili e competitivi”, di continuare a puntare sulla forza della “responsabilità” tipica di una “sinistra di governo”. Renzi spiega che il suo non è populismo ma “politica”, la stessa politica che non avrebbe dovuto abdicare davanti alla crisi delle banche e che dovrà farsi carico del sentimento popolare sul tema delle pensioni. Dunque, per Renzi, non è populismo ma politica esprimersi sull’operato di Bankitalia e varare la legge sui vitalizi. “Non siamo noi a rincorrere Grillo, ma loro a rincorrere noi” rivendica.
Le alleanze
Paolo Gentiloni si fa forte del Rosatellum e chiede un assetto ampio, “lo schieramento più largo possibile” dialogando sia a destra che a sinistra senza porre condizioni precise fin da ora perché il Pd è “il perno del governo di domani”. Renzi si dichiara a favore dell’allargamento, cita ad esempio singoli personalità già entrate nel partito, assicura che non si lascerà turbare dagli “insulti ricevuti”e che “non metterà veti”. Ma pone fin d’ora una condizione: “Non rinunciamo alle nostre idee”. Quanto peserà questa condizione si capirà solo nelle prossime settimane ma per ora l’impegno serve a tranquillizzare, almeno ufficialmente, gli altri big del partito.
Insomma, Gentiloni ha chiarito sabato che la leadership del partito va a Renzi. Renzi ha assicurato che l’importante è vincere non chi siederà a palazzo Chigi. Ma tra i due ci sono ancora tante sfumature diverse che fanno comprendere una visione non perfettamente coincidente. Dopo le elezioni siciliane si capirà quanto il segretario riuscirà a restare saldo alla guida del partito e, dopo le elezioni politiche, si capirà chi dei due si è rafforzato di più, soprattutto se il risultato non darà la vittoria secca a una coalizione ma richiederà un governo di larghe intese.