L'integrazione europea compie 60 anni. Come dire: tre generazioni l'hanno vista nascere, muovere i primi passi, crescere tra le preoccupazioni di chi le voleva bene, prosperare come una bella ragazza, raccogliere le soddisfazioni di una splendida maturità. Qualcuno adesso la trova troppo rugosa, ma probabilmente si sbaglia.
Luogo e data di nascita: Roma, 25 marzo 1957. Importante il luogo, importante l'anno. L'Italia, ammessa da pochi anni alle Nazioni Unite dopo il purgatorio impostole per via della guerra voluta dal fascismo, riceveva l'onore di ospitare l'atto costitutivo dell'entità che avrebbe dovuto evitare il ripetersi di quel bestiale macello (e la missione è stata compiuta con successo). Di lì a poco avrebbe avuto la definitiva consacrazione a Paese di punta del mondo sviluppato, con le indimenticabili Olimpiadi del '60.
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Si corona il sogno di Spinelli
Si coronava un progetto immaginato da Altiero Spinelli su uno scoglio di Ventotene, nell'isolamento del confino: il migliore frutto della cultura liberal-socialista. A realizzarlo un gruppo di democratici cristiani europei: Adenauer, Schumann e Monnet. Non è un caso. Tutti figli di regioni di confine dei rispettivi paesi: Renania, Alsazia, Trentino. L'Europa nasce dove più se ne è sentito il bisogno. Alcide De Gasperi, il giorno dei Trattati di Roma, è morto da quasi tre anni; impossibile però non riconoscergli la piena paternità del successo. A veder bene, le radici giudaico-cristiane dell'Europa c'erano già tutte, innestate nel ceppo della laicità illuminista che voleva la pace perpetua di Kant.
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Un'Europa a sei. Con il beneplacido di Churchill
Un'Europa continentale, a sei paesi. Dietro però i più aperti pensatori e politici anglosassoni davano il loro pesante beneplacito: Churchill a Londra ed il Senatore Fulbright a Washington. Solo Mosca, forte dei suoi paesi satelliti del neonato Patto di Varsavia, guardava ostile. Il Continente era separato da una Cortina di Ferro, e lo sarebbe stato per altri 40 lunghi anni durante i quali troppo vertici dei Sei, nel frattempo divenuti 12, sarebbero falliti sul problema del prezzo delle melanzane. Il mercato non è tutto: ci vuole la politica, eppure è una visione eccessivamente mercantilistica quella che si impone dopo il 1989, quando i tiranni cadono e esplode la Primavera dei Popoli. L'Unione Europea, che è passata nel nome dall'essere una Comunità Economica ad una Comunità senza aggettivi ed infine sceglie questa ambiziosa autodefinizione, pensa alla grande democrazia greca e sceglie di riedificarsi sul modello della facciata tritrastila di un tempio. Tre colonne per reggere il nuovo edificio: politica estera comune, politica economica e finanziaria comune, comune politica sociale.
Londra compie il primo strappo
Ma già nella notte di Maastricht c'è chi dice no. Londra, entrata nella casa comune con 15 anni di ritardo e da sempre coinquilina dubbiosa, compie il primo strappo e si sfila dal progetto sociale. E' qualcosa di più profondo di un semplice nyet: è il segno che il modello di sviluppo anglosassone si sente sufficientemente forte per imporsi agli stati continentali ed al loro modello renano e socialdemocratico. Da allora il rigore dei conti diviene il mantra ripetuto incessantemente, soffocante, ad ogni consiglio europeo. L'Europa dei popoli diviene inesorabilmente l'Europa dei conti a posto, bella e senz'anima. Anche le culture politiche non sono più quelle: la democratico-cristiana è scomparsa oppure è stata fagocitata dal conservatorismo; quella socialista e socialdemocratica, cui si è aggiunta con il tempo quella proveniente dal comunismo europeo occidentale, ha sposato in toto la causa del mercato.
Quel Nobel per la Pace che non basta
Un'Europa dove tutte le vacche sono grigie coglie il massimo dei riconoscimenti ad inizio millennio, quando le viene conferito il Nobel per la Pace. Quasi un sospiro di sollievo di tutta la comunità internazionale per l'avere essa imposto la calma in un triangolo di terreno ricco e prospero ma dal quale si sono scatenate le peggiori sciagure del Novecento. L'hanno smessa di seminare divisioni, grazie al cielo. Ma la combinazione di economicismo e indeterminatezza, dovuta anche al fatto che si è passati da 12 a 28, e che i nuovi arrivati danno l'impressione di voler partecipare alla affluenza economica più che ad un ideale politico, porta alla fine allo stallo. E sono proprio coloro che hanno da sempre frenato i primi a chiudere la porta in faccia alla Comunità.
La necessità di un restyling. Senza i britannici
E' il 23 giugno del 2016 ed un Regno Unito spaccato in due come una mela decide, di strettissima misura, di lasciare. Una possibilità contenuta nel Trattato di Lisbona ma concepita da sempre come un'ipotesi di scuola. Dall'altra parte dell'Atlantico la svolta trumpiana della politica americana dà nuove forze agli scettici, ai sovranisti, a chi dice "padroni in casa propria". A quegli inglesi che, quando c'è tempesta sulla Manica, continuano a sussurrare: "Il Continente è isolato". C'è però di bello che questa Vecchia Signora sa resistere, resistere, resistere. In Austria i sovranisti del Partito Liberale hanno mancato il colpo di ottenere la Presidenza della Repubblica. Per una manciata di voti, è meno, ma quanto basta. E in Olanda i vecchi partiti ammaccati stanno facendo polder per isolare la destra xenofoba, razzista e antieuropeista. Le sfide decisive arriveranno tra pochi mesi: in Francia ad aprile e in Germania a settembre. Lì si capirà dove e come intervenire. Perché a 60, comunque, c'e' bisogno di un'operazione di restyling.