Se l’Iran e l’Iraq protestano duramente contro le restrizioni imposte da Donald Trump agli ingressi dei loro cittadini in Usa, i leader dei Paesi arabi tradizionalmente alleati di Washington, come le monarchie del Golfo, sono rimasti freddi di fronte all’ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti, salvo qualche cauta critica di circostanza. Domenica scorsa Trump ha telefonato al re saudita Salman e allo sceicco Mohamed bin Zayed al Nayhan, principe ereditario della corona di Abu Dhabi, due conversazioni che seguono quella con il presidente egiziano Al-Sisi, che fu tra i primi mondiali a parlare con il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Il re di Giordania vola a Washington
Di ieri è invece la visita a Washington del re giordano Abdallah, che ha incontrato il vicepresidente Mike Pence e, secondo il governo di Amman, si sarebbe limitato a sottolineare che “i musulmani sono le vittime numero uno” dei terroristi islamici, definiti “fuorilegge religiosi che non rappresentano nessuna fede o nazionalità”. “Estremismo e terrorismo non hanno religione o identità” è invece quanto avrebbe dichiarato il principe Mohamed durante il colloquio, ancora a quanto si legge in una nota del governo, mentre il comunicato ufficiale di Riad non fa alcuna menzione dell’ordine esecutivo. Dopo aver sottolineato “l’identità di vedute” su temi quali “la lotta al terrorismo, all’estremismo e al suo finanziamento” i due leader si sono accordati per visitare presto i reciproci Paesi.
L'Iran torna nell'asse del male
Se l’obiettivo di Trump era evitare l’arrivo di terroristi, sarebbe fin troppo semplice ricordare che, dei diciannove attentatori dell’11 settembre, 15 erano sauditi, due emiratini, un egiziano e un libanese. Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen – a guardare la vicenda con gli occhi della realpolitik – appaiono finiti nella lista per la loro attuale situazione di instabilità. Diverso il caso dell’Iran, non certo uno “Stato fallito”, che torna a essere considerato parte della “asse del male” dei tempi di George W. Bush, anche in quanto avversario numero uno di quelli che appaiono destinai a tornare gli alleati principali degli Usa nell’area: Arabia Saudita e Israele, i cui rapporti con Washington avevano toccato i minimi storici durante l’amministrazione Obama.
Oltre che sulla lotta al terrorismo, Trump e Salman hanno concordato sulla necessità di applicare in maniera “rigorosa” l’accordo sul programma nucleare iraniano. “Il nemico del mio nemico è mio amico. Dal momento che l’Arabia Saudita è nemica dell’Iran e l’Iran è nemico di Israele, allora gli Usa sono amici dell’Arabia Saudita”, osserva Mathieu Gudiere, docente francese specializzato in geopolitica mediorientale, secondo il quale i sette Paesi finiti nella lista nera sono quelli “non capaci di assicurare sicurezza e scambio di dati con gli Usa sui suoi cittadini”. E, per quanto l’Iran possa essere un Paese stabile e impegnato nella lotta al terrorismo, i rapporti della sua intelligence con quella americana non devono essere propriamente idilliaci.
"Convergenza con Al-Sisi"
“Trump sembra riteneregli Stati del Golfo – in linea con una consolidata tradizione politica statunitense - alleati cruciali del governo degli Stati Uniti”, è l’interpretazione di Adam Baron, analista dell’European Council on Foreign Relations, “le nazioni sembrano essere state scelte per via delle mediocri relazioni dei loro governi con gli Usa o della loro situazione precaria”. “Egitto e Arabia Saudita sono visti come i principali partner degli Usa nell’area”, afferma da parte sua Victor Salama, docente di Scienze Politiche all’università del Cairo, che sottolinea una “convergenza di punti di vista” tra Trump e Al-Sisi, “Il bando non riguarda Paesi con i quali abbiamo una stretta collaborazione in campo di anti-terrorismo e dove c’è una struttura ben organizzata di cooperazione sull’intelligence”, sostiene invece Anthony Cordesman del Centre for Strategic and International Studies, che non prende sul serio la mappa pubblicata da Bloomberg secondo la quale Trump privilegerebbe i Paesi dove ha interessi economici: “un emolumento occasionale per la vendita di un marchio è decisamente troppo poco per motivare un presidente”.