Kilis-Oncupinar (Turchia) - L'ingresso del campo di Oncupinar si trova a poche decine di metri dal confine che divide la Turchia dalla Siria. Si tratta del secondo dei 27 campi profughi, in cui l'Agi e' riuscita ad entrare, che Ankara ha costruito da quando, nel giugno del 2011, inizio' un flusso pressoche' ininterrotto di rifugiati, che dalla Siria ha visto piu' di 3 milioni di persone attraversare in confine, 2,7 milioni delle quali attualmente risiedono in Turchia, in gran parte fuori dalle medesime strutture. Non essendo firmataria della Convenzione di Ginevra, la Turchia non e' in grado di riconoscere lo status di rifugiato, tuttavia riconosce come "ospiti sotto protezione temporanea" i siriani attualmente nel Paese. Al contempo il perdurare della crisi ha fatto si che il livello dell'organizzazione delle strutture di accoglienza migliorasse sempre piu', e quelle che all'inizio erano tendopoli si trasformassero in lunghe file di container dotati di bagno e riscaldamento elettrico mentre una area di casette a due piani sara' presto pronta ad accogliere altre 3000 persone. Si stima che dal 2011 ad oggi Ankara abbia speso almeno 8 milioni di dollari nella gestione della crisi umanitaria scaturita dalla guerra in Siria. Sono 10.500 i rifugiati attualmente ospitati nel campo, di questi sono circa 1000 i bambini nati da quando la struttura e' stata inaugurata, ormai quasi 5 anni fa. L'intera area e' stata gradualmente arricchita da un mercato, 2 moschee, un asilo, un parco giochi per bambini, una scuola elementare e una scuola media, dove il governo turco garantisce un'istruzione in arabo. Ai rifugiati e' garantito un sussidio di 400 lire turche (circa 130 euro) mensili per famiglia, comunque sufficienti ad acquistare prodotti alimentari e di prima necessita'. L'aria e' serena e gli abitanti sembrano ormai abituati. Colpisce la pulizia, l'ordine dei container e il via vai di donne e bambini nelle strade del campo, mentre gli uomini chiacchierano e fumano tabacco e narghile'. Girando per il campo salta immediatamente all'occhio che la vita segue un suo corso ben preciso, per gli abitanti si tratta di una vera routine, una nuova normalita' che si e' creata dopo la fuga dalla guerra e dalla distruzione.
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Mohammed, a sud di Aleppo faceva l'allevatore, "impossibile continuare un lavoro del genere in guerra" mi dice, cosi' come gli riesce "difficile in questo momento immaginare una Siria senza guerra". "Ho due fratelli e una sorella che vivono nella parte di Aleppo controllata dal regime, non li sento da 2 anni, da quando ho deciso di fuggire perche' la situazione e' diventata insostenibile" mi racconta.Alla domanda sulla vita al campo risponde con un espressione contratta: "Il campo funziona, c'e' anche il riscaldamento, ma e' l'idea che questa vita possa non finire mai piu', che non possa tornare a lavorare che mi spaventa, non voglio di certo morire qui". Ahmed e Muzaffer fumano tabacco vicino alle nuove case in costruzione, il primo mi racconta di essere di Deral "la citta' in cui e' iniziata la rivoluzione", il tono e' fiero nel rivendicare "che la mia citta' si e' sempre opposto al regime, sin dai tempi di Hafez Al Assad". Secondo Ahmed "la Siria meritava qualcosa di meglio di questo, eravamo pronti a essere un Paese democratico, ma la famiglia Assad prima e gli interessi stranieri poi, hanno distrutto tutto". Di questa nuova vita sono "grati alla Turchia per l'accoglienza", tuttavia "felici no, perche' non possiamo lavorare e abbiamo abbandonato tutto". Ahmed porta al parco giochi le due piccole figlie gemelle, tenendole per mano "Ho dei cugini nei campi in Libano, del posto in cui stanno vivendo mi raccontano storie allucinanti sull'igiene e sulle condizioni in cui sono costretti a stare, ho provato a farli venire qui, ma e' impossibile".Ahmed e' grato al governo turco soprattutto perche' "le figlie possono andare a scuola", l'unica maniera che queste bambine hanno "per guadagnarsi un futuro migliore, lontano dalla Siria e lontano da qui". Si avvicina curioso un gruppo di bambini, avranno tra i 5 e i 10 anni e chiedendo loro se si ricordano della Siria, si fermano a pensare prima di rispondere unanimi che "in Siria c'e' la guerra, meglio stare qui". (AGI)