Più dialogo tra università e ricerca, spinta agli ecosistemi locali e un reddito di base per attutire l'impatto dell'automazione (“Ma non è la soluzione a tutto”). Michael Spence, professore di Economia alla New York University e premio Nobel nel 2001, ha raccontato ad Agi la sua visione del futuro a margine del SEP Scaleup Summit, evento organizzato da Mind the Bridge e promosso dalla Commissione Europea che ha riunito a Milano investitori, istituzioni e alcune delle scaleup europee più promettenti. Spence si dice “molto preoccupato” per lo strapotere delle compagnie digitali, critica le criptovalute ma non risparmia neppure alcuni vizi italiani.
Professor Spence, durante lo Scaleup Summit si è parlato di innovazione e imprese tecnologiche. Cosa manca all'Italia per essere al passo con altri Paesi?
"C'è una questione culturale: ci sono molte imprese 'familiari' che non vogliono cedere la proprietà. Questo significa scegliere di non avere risorse finanziare per acquisire altre compagnie o tecnologia. Almeno in alcuni settori, credo sia una parte del problema. E poi quello delle startup è un business rischioso: serve un sistema sociale diverso, che protegga chi fallisce in diversi modi. Credo che questo sia un elemento spesso sottovalutato. Occorre far nascere ecosistemi. E per costruirli servono tempo e infrastrutture (materiali e immateriali). La prima volta che sono stato nella Silicon Valley, nel 1973, le infrastrutture che ci sono adesso non c'erano o erano appena arrivate. Oggi le piattaforme digitali consentono un'evoluzione più rapida, ma è importante svilupparle in ecosistemi locali. Finanza, logistica, vendita, manifattura e tanto altro: se vuoi startup devi avere chi è in grado di creare ogni parte dell'ecosistema".
Ci sono in Italia ecosistemi di questo tipo?
"Non conosco nel dettaglio tutte le aree italiane, ma posso fare l'esempio di Milano: è un ecosistema del design perché ha uno sistema aperto, competenze, idee, talenti, creatività, produttori".
E a livello tecnologico?
"Uno dei limiti, secondo me, è uno scambio ancora limitato tra centri di ricerca universitari e il mondo delle imprese. Non so quanti venture capital facciano un giro nei policlinici. In Silicon Valley so per certo che passano molto tempo a Stanford. Il problema, anche in questo caso, credo sia culturale. Chi lavora nelle università pubbliche tende a vedersi come un 'civil servant'. È un atteggiamento diverso e distante da quello del business. Andrebbero invece incoraggiate le interazioni e le collaborazioni tra ricerca e imprese. Anche negli Stati Uniti ci sono istituzioni pubbliche che fanno ricerca pubblica, ma sono più aperte al contributo dei privati".
Come vede la pressione che l'intelligenza artificiale impone a economia e occupazione?
"Sono una sfida. E dobbiamo sicuramente pensarci. Ma spesso si sottovaluta l'importanza del tempismo. Quasi tutto quello di cui si discute adesso riguarda qualcosa che 'potrebbe potenzialmente succedere' ma non si bada troppo al quando, se l'anno prossimo o tra 25 anni. E questo è un errore. L'intelligenza artificiale avrà un grande impatto. Ma tra 25 anni avremo già una generazione dotata di competenze completamente diverse. Già oggi, invece, l'AI è uno strumento potente per le piattaforme che detengono i dati. Ma siamo ancora molto lontani da un robot che possa agire in un ambiente non strutturato, per sostituire ad esempio il nostro giardiniere. Tutto questo per dire che la visione deve essere diversa a seconda dei tempi con cui la tecnologia si evolve. È giusto pensare a possibili contromisure, come a un reddito di base. Ma è troppo presto per capire come il mondo sarà nel 2050".
Pensa che il reddito di base possa essere una soluzione anche per limitare l'impatto dell'intelligenza artificiale sull'occupazione?
"Sì, potrebbe essere parte della soluzione per evitare che ci siano persone in condizioni socialmente ed eticamente inaccettabili. Ma non penso sia la panacea di tutti i mali. Quello che mi preoccupa è che la gente pensi che col reddito di base sia tutto risolto. Non è così. Perché oggi le persone cercano anche altro: vedere premiato il proprio lavoro, sentirsi apprezzati, garantire educazione ai propri figli".
Ha citato prima la questione data: è preoccupato della concentrazione di informazioni nelle mani di poche compagnie tecnologiche?
"Sì, molto preoccupato. Ci sono posizioni di monopolio. C'è un abuso di dati, problemi di privacy, di controllo e di accesso alle informazioni. E allo stesso tempo una regolamentazione ancora debole. E penso che quando sarà più sviluppata tenderà ad avere direzioni differenti nelle singole aree, in Cina, Usa, Europa. È una tendenza che si può già vedere oggi, e non è un bene. Tutti pensano che internet semplicemente sia lì, a disposizione, e che tutto sia a posto. Non è così".
L'Europa sta discutendo una web tax per limitare l'elusione fiscale delle compagnie digitali. Cosa ne pensa?
"Non ho preclusioni nei confronti di questa misura. Ma il tema è complesso e ci sono diversi aspetti da valutare. Ad esempio: la tassa si concentra sul luogo di produzione o di distribuzione? Oppure: se si vende online merce contraffatta, è colpa del produttore, della piattaforma o di entrambi? Non si tratta di un sistema di commercio fisico tradizionale, dove era chiaro il concetto di confine. Nelle web company c'è una grande quantità di beni intangibili. E in questo caso occorre chiarire dove vengono prodotti: in California? Non è una domanda di semplice risposta".
Joseph Stiglitz, con lei premio Nobel nel 2001, ha definito le criptovalute “una bolla”. Cosa ne pensa?
"Sì, le criptovalute hanno il sapore della bolla. Un asset che aumenta il proprio valore del 100% nel giro di due settimane somiglia al gioco d'azzardo. Dovrebbero essere regolamentate per diminuire l'attuale asimmetria informativa. Sono scettico. Non lo sono invece sulla blockchain e sulle sue future applicazioni".