Uno dei tormentoni della retorica politica di Donald Trump è lo spettro di una svalutazione competitiva che le aree economiche concorrenti porterebbero avanti ai danni degli Usa. Un dollaro troppo forte sarebbe un grosso problema per un’America protezionista che intenda uscire dai grandi trattati di libero scambio come il Nafta e il Tpp. Finché gli strali di Trump erano diretti alla Cina, i cui export corrono anche grazie al sistema di fluttuazione dello yuan, complesso e poco trasparente, i partner occidentali non avevano poi molto da obiettare. Ora però al centro della polemica è entrata la Germania, un colosso industriale di fronte al quale la manifattura americana non è ancora in grado di concorrere ad armi pari. Soprattutto ora che l’euro, grazie al programma di ‘quantitative easing’ della Banca Centrale Europea, si è deprezzato a un punto tale da avvicinarsi alla parità con il dollaro. Per Trump, la vera ragione della politica monetaria di Francoforte sarebbe quindi mantenere competitive le esportazioni dei membri di Eurolandia, Berlino in primis.
La replica di Draghi: “non manipoliamo la moneta”
Questa la ragione che ha portato Draghi a rispondere in maniera così recisa al nuovo inquilino della Casa Bianca. La Bce non poteva accettare di veder tacciati come svalutazione competitiva tutti gli sforzi compiuti per mantenere l’integrità dell’unione monetaria e tenere bassi i costi del debito dei Paesi più vulnerabili, per quanto le economie europee più legate all’export, come Germania e Italia, abbiano tratto indubbi vantaggi dall’euro debole. "Non siamo manipolatori della moneta", ha replicato Draghi durante un'audizione all'Europarlamento, “le politiche monetarie che abbiamo fatto riflettono la diversa posizione nel ciclo economico della zona euro e degli Usa; l’euro nel 2013 era a circa 1,40 dollari e il surplus tedesco nei confronti degli Usa era già al 6 per cento". Secondo Draghi, "la forza dell'economia tedesca è che non è basata sulla politica selvaggia del costo del lavoro ma su produttività e concorrenza".
Dietro la polemica c’è lo scontro latente tra Trump e la Fed
Quanto affermato da Draghi è una mera constatazione della realtà. Gli Usa e l’Eurozona si trovano in una fase molto diversa del proprio ciclo monetario. La Federal Reserve, la banca centrale americana, dopo la crisi dei mutui, aveva riversato migliaia di miliardi di liquidità nel sistema e ha mantenuto i tassi di interesse a zero fino al dicembre 2015, quando il mercato del lavoro statunitense si era ormai ripreso da anni. E l’aumento del costo del denaro in Usa sta procedendo a un ritmo piuttosto lento che, per Trump, è comunque troppo. In campagna elettorale l’immobiliarista newyorchese aveva invitato più volte la Fed (che non aveva alzato i tassi per quasi dieci anni) a frenare la stretta monetaria per evitare un eccessivo rafforzamento del dollaro, che renderebbe il made in Usa meno conveniente, e aveva perciò attaccato più volte l’attuale presidente dell’istituto, Janet Yellen. Paradossalmente, è quindi Francoforte che avrebbe un maggiore diritto di accusare Washington di svalutazione competitiva.
Schaeuble e Weidmann alleati improbabili di Trump
Un altro paradosso, ancora più clamoroso, è che a fare da sponda a Trump potrebbero essere proprio i due pesi massimi dell’establishment economico tedesco: il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, e il ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, da sempre opposti alla politica monetaria accomodante di Draghi. In Europa il ‘quantitative easing’, ovvero l’acquisto di titoli di Stato e altre obbligazioni teso ad aumentare la liquidità in circolazione, è partito solo nel marzo 2015, un ritardo dovuto alle forti resistenze di Berlino. Se i tassi zero della Bce, deprezzando l’euro, fanno volare le esportazioni tedesche, le banche teutoniche, abituate a offrire rendimenti molto interessanti ai propri clienti, hanno visto invece finire in crisi il loro modello di business. La Germania, che basa parte della propria competitività sul mantenere il costo del lavoro sotto controllo, teme inoltre la crescita dell’inflazione che è conseguenza del ‘quantitative easing’, anche perché aggraverebbe l’attuale impennata dei prezzi degli immobili (non potendo più contare sui rendimenti delle banche, i risparmiatori tedeschi stanno puntando sul mattone). Il problema è che l’unico grande Paese dell’Eurozona dove il tasso di inflazione è tornato a toccare il 2% è proprio la Germania. Proprio per questo, durante la sua audizione, Draghi ha dovuto replicare anche a Schaeuble, ricordandogli che “i differenziali di inflazione non sono una cosa nuova, sono sempre stati con noi”. “I politici, in particolare in tempo di elezioni, esprimono commenti sulla politica monetaria ed è comprensibile ma è anche comprensibile per un banchiere centrale che senta i commenti ma non li ascolti”, ha aggiunto Draghi, citando un suo predecessore, Wim Duisemberg. A mettersi il cuore in pace, quindi, non dovrà essere solo Trump.