di Geminello Alvi
Roma - Secondo l’Annual Attractiveness Survey dell’EY lo scorso anno è sbarcato nel Regno Unito il maggior numero di progetti d’investimenti esteri da almeno un ventennio. Essi sono ammontati a un quinto di tutti i progetti europei e hanno generato un’occupazione associata a questi progetti di 42000 unità e cresciuta di 35 punti. E tuttavia il rapporto ha rilevato al contempo: “il più grande calo mai registrato del Regno Unito nelle percezioni degli investitori". Il sondaggio di 440 aziende internazionali vede solo poco più di un terzo degli intervistati d’accordo con la previsione che l'attrattività del Regno Unito per gli investitori stranieri migliorerà nei prossimi tre anni. Un calo impressionante rispetto al 54% rilevato lo scorso anno, ed il peggior risultato dal 2010 all’inizio della crisi del debito greco.
In particolare interrogato a riguardo dal Daily Telegraph, Steve Varley, presidente di EY, ha definito stellari i risultati del Regno Unito nel 2015 come "a dir poco stellari". E tuttavia "In un contesto positivo, vi è sicuramente stato un marcato deterioramento nelle percezioni degli investitori del Regno Unito su una scala mai vista prima", ha aggiunto. E certo le preoccupazioni sul costo del lavoro, le capacità aeroportuali e i prezzi degli immobili pesano in questo calo dell’attrattività futura. Eppure Varley giudica che questi fattori da soli non possono giustificare l'entità del calo che si è registrato.
"E’ possibile che anche il prossimo referendum sulla adesione all'UE del Regno Unito stia pesando sulle valutazioni degli investitori” E in effetti la ricerca EY dimostra secondo lui “che qualsiasi deterioramento delle condizioni per cui le imprese con sede nel Regno Unito possono accedere al mercato unico europeo, costituirebbe una seria preoccupazione per gli investitori". In effetti gli investitori esteri possiedono attività per £10.600 miliardi nel Regno Unito, pari a cinque volte il suo PIL, ma la Unione Economica ne resta il principale partner e rappresenta la destinazione o la fonte, secondo la Bank of England, di più di due quinti dei suoi investimenti cross-border.