di Geminello Alvi
La speranza degli iraniani per un miglioramento dell’economia sono iniziate a decollare fin dal mese di luglio, quando l'Iran ha firmato l’accordo nucleare con i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la UE. Rouhani ne è ben consapevole come sa di dovere la sua presidenza proprio a queste speranze. E perciò ha chiuso l’accordo sul nucleare: per avviare un nuovo corso economico, reso inevitabile dalla congiuntura internazionale e soprattutto da quella interna. I crescenti ricavi del petrolio prima hanno, negli anni dei prezzi crescenti, distorto la struttura economica iraniana; poi sono arrivate le sanzioni a generare al contempo inflazione dei prezzi interni e stagnazione. Nel 2013, l’Iran di Rouhani si è così trovato in una stagflazione da manuale con l'inflazione al di sopra del 40%, ed un prodotto interno in contrazione del 6%.
Rouhani ha ottenuto peraltro un certo successo nel ridurre l'inflazione, che s’è ridotta ora al 13%. Ma il Fondo Monetario Internazionale prevede il PIL in contrazione quest’anno. E intanto l'Iran soffre di un tasso di disoccupazione a due cifre, con la disoccupazione ufficiale dei giovani al di sopra del 25%. Con la fine delle sanzioni tuttavia, le stime del FMI tuttavia si attendono che la crescita del PIL possa raggiungere circa il 5% nel 2017. Ma i prezzi del petrolio, crollati del 70% a partire dalla metà del 2014, non aiutano Rouhani in questa impresa. Anzi è il caso di rammentare che i prezzi del petrolio scesero addirittura nel 1999 sotto $10 al barile, quando il presidente Mohammad Khatami tentò invano di riuscire nelle riforme. La speranza riformista in Iran dipende insomma oggi come ieri sia dall’equilibri politici interni, e sia dagli scenari dei mercati energetici.
E tuttavia nella complessa architettura del potere in Iran e nel labirinto di centri decisionali che ne conseguono, religione, politica, e rendite si confondono in maniera inestricabile. E complicano all’inverosimile il tentativo di ridare produttività al sistema economico esausto. Evitare che l’economia seguiti ad essere preda della lotta tra le varie fazioni, come osserva Hassan Akimian della SOAS di Londra, non è compito facile.