R oma - Vittorio Sermonti, lo ricordano in tanti oggi, è stato la voce dei classici. Su questa parola cade l’accento anche nella fascetta editoriale che ha accompagnato pochi mesi fa l’uscita del suo romanzo autobiografico: «Nella voce inconfondibile di un grande scrittore l’avventura di un uomo e la storia di un Paese». 'Se avessero' è un memoir sui generis: piuttosto che mettere in fila fatti accertati, si apre con un periodo ipotetico dell’irrealtà. Un gesto romanzesco che riapre il gioco dei possibili, tiene insieme quello che è stato e quello che avrebbe potuto accadere. Anche la lettura di questo libro richiede una prestazione vocale, magari muta, uno sforzo interpretativo capace di rendere i diversi piani discorsivi che si aprono ad ogni periodo. Dentro ogni periodo. Il ricordo e il dubbio che lo mina, la riflessione e il suo ripensamento. In un incontro di presentazione a Roma il testo è stato magistralmente eseguito da Roberto Herlitzka, ma è come se Sermonti avesse lanciato una sfida a ogni lettore: trovare il bello in ciò che appare a prima vista difficile (viene in mente l’esergo di un romanzo di Bufalino, Le menzogne della notte: «A noi due»).
Il libro ha fatto come tutti sanno la sua corsa al Premio Strega. Sermonti, che aveva difficoltà a viaggiare, ha presenziato a tutti gli appuntamenti romani, compresa la votazione per la cinquina dei finalisti in casa Bellonci. L’archivio del premio conserva una sua foto del 1960 con Alberto Arbasino nel corridoio dell’appartamento di via Fratelli Ruspoli: entrambi bellissimi, giovanissimi e già in gara, rispettivamente con 'Giorni travestiti da giorni' e con 'L’anonimo lombardo'. Era anche, da finalista, all’Auditorium Parco della musica per l’atto conclusivo. E' toccato a Ludovica Ripa di Meana – con lui sul palco, nella vita e nel romanzo (è il “tu” con cui il narratore interloquisce) – il racconto della loro unione affettiva. È stato forse quello il momento più autentico ed emozionante della serata: «Lui è me come io sono lui, insieme formiamo un decrepito ermafrodito».
*Stefano Petrocchi è direttore della Fondazione Bellonci