Donald Trump ha tagliato il traguardo dei 100 giorni da Presidente degli Stati Uniti. Si tratta di un traguardo perlopiù simbolico: di solito si dà importanza ai primi 100 giorni perché da questi si prova a tracciare il primo, parziale, bilancio di una nuova amministrazione. Talvolta, proprio da ciò che accade in questo periodo iniziale è possibile trarre molte indicazioni su ciò che avverrà nel prosieguo del mandato.
Perché scegliere proprio i primi 100 giorni?
Non è un caso che molti politici in campagna elettorale promettano di fare determinate scelte rilevanti proprio nei primi 100 giorni. Perché scegliere proprio i primi 100 giorni per prendere certi provvedimenti? In effetti, i problemi più spinosi che possono affliggere un Paese (a maggior ragione un paese enorme e variegato come gli Stati Uniti) richiedono certamente tempo per essere studiati e affrontati nel modo giusto: nessuno può pensare di risolvere problemi complessi in poche settimane. Inoltre, una nuova amministrazione ha per definizione bisogno di un po’ tempo per fare esperienza e abituarsi ai meccanismi di un governo. Le risposte sono essenzialmente di due tipi.
- Agli elettori piace sentirsi dire dai candidati, in campagna elettorale, che i problemi ritenuti più gravi ed urgenti verranno affrontati da subito, senza esitazioni; serve a dare l’impressione che il proprio voto serva a cambiare le cose da subito, che il suo esercizio sia un’azione efficace che vale davvero la pena di compiere
- I primi 100 giorni sono il momento ideale per sfruttare la cosiddetta “luna di miele”. Con questo termine si designa solitamente il periodo iniziale di un’amministrazione, che beneficia della fine delle ostilità data dalla fine di una campagna elettorale a volte lunga e sfiancante (tanto per i candidati quanto per gli stessi elettori) e dell’effetto novità che porta a giudicare positivamente – o comunque in modo più benevolo del normale – i primi atti di una nuova amministrazione per il solo fatto di essere tali.
Come è stata la “luna di miele” di Donald Trump?
La risposta è: molto male. numeri rilevati dai sondaggi lasciano ben poco spazio a sfumature e interpretazioni. Negli Stati Uniti, molto più che in Italia, si effettuano un gran numero di sondaggi riguardanti l’approvazione dell’operato del presidente. Il perché è facile da intuire: trattandosi di una figura sottoposta direttamente al voto popolare (gli Usa sono un sistema presidenziale, dove il capo del governo è eletto direttamente dal popolo), la cosa più importante per un presidente che voglia essere rieletto, o comunque far eleggere un candidato del suo stesso partito dopo di lui, è essere popolare in ciò che fa. In questo Trump non se la sta cavando molto bene. Due sono, essenzialmente, le misure su cui Trump aveva promesso maggiormente di spendersi sin da subito durante la campagna elettorale: il controllo dell’immigrazione e la riforma sanitaria.
Promessa N.1: il controllo dell'immigrazione
Trump ha provato a fare qualcosa fin dai suoi primissimi giorni da presidente, con il cosiddetto “muslim ban”, il blocco degli ingressi (legali) negli Usa per chiunque provenisse da una lista di paesi di fede islamica. Ebbene, non solo il provvedimento non sembrava riscuotere grandi entusiasmi tra i cittadini, ma soprattutto ha creato una serie di situazioni problematiche che hanno portato svariati giudici a disapplicare la norma perché lesiva di diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione americana. Trump ha dovuto ritirare il provvedimento, provando in seguito a riproporlo leggermente modificato, ma senza successo. La bocciatura del “muslim ban” è stato il suo primo atto concreto da Presidente, ed è stata una sconfitta netta.
Promessa N.2: la riforma sanitaria
Ancor più grave è stata la sconfitta incassata con il tentativo di abrogare la riforma sanitaria di Obama (la cosiddetta legge “Obamacare”) sostituendola con una nuova legge. Questa volta l’ostacolo per Trump è venuto proprio dal suo partito: i repubblicani infatti hanno la maggioranza al Congresso, e se non sostengono compattamente le iniziative del Presidente queste non possono passare. La riforma di Trump non piaceva né ai repubblicani moderati (perché toglieva la copertura sanitaria a troppi americani) né ai falchi che volevano una legge ancor più drastica. Risultato? Anche la legge sulla riforma sanitaria è stata ritirata. Due insuccessi su due dei primissimi atti presidenziali, peraltro riguardanti temi su cui Trump aveva investito molto in campagna elettorale.
Il 'gradimento' di Trump mai superiore al 50%
Tutto questo ha avuto un impatto evidente sul gradimento rilevato dai sondaggi. Trump in verità partiva con uno svantaggio: il suo gradimento non è mai stato superiore al 50%, nemmeno il giorno dell’insediamento. Questa è una novità assoluta per i presidenti statunitensi, ma non deve sorprendere: in effetti Trump da candidato presidente ha usato toni incredibilmente aggressivi e provocatori, e non stupisce che la metà degli americani che non lo ha votato se ne ricordi bene e faccia fatica a fidarsi di lui. Ad oggi, dopo i fatidici 100 giorni, il suo indice di gradimento è fermo poco sopra il 40% (41,4% secondo il sito FiveThirtyEight) e in calo rispetto al 45% registrato durante il primo mese. Per fare un paragone con i suoi predecessori: dopo 100 giorni Obama aveva un indice di gradimento del 61%, Bush jr del 58%, Clinton del 53%. L’unico presidente con un gradimento così basso dopo 100 giorni era stato Gerald Ford, che comunque si teneva di poco sotto il 50%.
La 'svolta' internazionale di Donald Trump
Molti hanno visto nella recente svolta “internazionalista” di Trump un tentativo di reagire a questo avvio poco brillante. In effetti non sarebbe la prima volta che un presidente cerca di compattare il consenso in patria occupandosi di politica estera: e le recenti svolte interventiste, in Siria (che gli è costata il gelo con la Russia di Putin), in Afghanistan e soprattutto con la Corea del Nord, sono probabimente la spia di quanto Trump si senta accerchiato in patria: dai media, dalla magistratura, dal suo stesso partito. E così il presidente che voleva riportare i repubblicani alla loro originaria dottrina isolazionista rischia, con il suo interventismo “decisionista”, di doversi occupare molto più dei dossier internazionali che di quelli domestici.