Adesso va a finire che il problema dell’Italia sono le startup. Che la mancata crescita economica dipende dai ragazzi che ogni giorno provano a crearsi un lavoro invece di cercarlo. E che la crisi della classe operaia dipende da chi si è inventato qualcosa di nuovo. Prendete il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Al Lingotto, in occasione del mega evento per lanciare la candidatura di Matteo Renzi alla segreteria del PD, dice:
L’errore terribile, signor ministro, è proprio aver parlato troppo di startup in questi anni e aver fatto troppo poco. Sì, l’Italia oggi ha una legislazione sul tema avanzatissima, fra le migliori d’Europa. E’ persino possibile creare una società con un euro. E c’è una corsia preferenziale per dare un visto agli stranieri che vogliono fare una startup in Italia. E allora?
Allora abbiamo la scocca ma non abbiamo il motore, come dice chi in questo mondo ci vive ogni giorno. Il motore sono i soldi, i soldi per trasformare una piccola startup in una grande impresa globale di successo.
E i soldi, si chiama “capitale di rischio”, non ci sono. Nel 2016 in Italia sono stati investiti in startup 182 milioni di euro; ma in Francia sono stati 2 miliardi e 700 milioni, in Germania 2 miliardi e mezzo, nel Regno Unito oltre 3 miliardi. E persino la Spagna ha un risultato che è tre volte il nostro: 500 milioni. In Italia le startup nascono, sono circa seimila, più che in Silicon Valley, ma non crescono e non muoiono mai perché nessuno rischia davvero. Galleggiano. Le poche che emergono vengono comprate all’estero: magari anche da Amazon, Intel, Microsoft, è successo. Comprano per due spicci i prodotti dei nostri migliori ragazzi. Non sono le startup il problema dell’Italia, ma è l’Italia il problema degli startupper italiani.