Comincerò questo blog con una domanda, che, di recente, mi viene sempre più spesso posta da colleghi e vecchi amici italiani: "Guglielmo, cosa ci vorrebbe per farti lasciare la tua posizione a Duke University, e rientrare a lavorare in Italia?" Una domanda per me molto complessa, perché ho fatto tutta la mia carriera in America, e quello è il sistema che conosco meglio.
Come premessa, molto spesso si sente parlare della fuga dei cervelli dall'Italia, con una forte critica verso l'università italiana: non saranno questi i miei toni. A mio modo di vedere, è importante, in questo momento di grande cambiamento in Italia, cercare di essere il più costruttivi possibile. Amo l'Italia, il mio paese, vedo nella ricerca italiana la possibilità di crescita a livelli molto competitivi, e cerco di pensare in positivo.
Lavorando all'estero, credo di avere alcuni vantaggi rispetto a miei colleghi Italiani nell'analizzare la situazione in Italia, perché guardo questo sistema con distacco, ed ho modo di apprezzarne il cambiare con maggiore facilità, dal momento che non ne seguo l'evoluzione dal suo interno di giorno in giorno, ma osservo invece le tendenze su periodi più lunghi.
Il mio essere lontano comporta però anche qualche svantaggio, per esempio potrei non essere sempre perfettamente aggiornato sugli ultimi sviluppi: beh, se non altro questo blog è una lettera aperta per ampliare la discussione con gli amici lettori italiani.
Vorrei innanzitutto spendere alcune parole di elogio verso tanti ricercatori che sono rimasti a lavorare in Italia, e che hanno costruito gruppi di ricerca importanti, nel mio settore ed in tanti altri. L'Italia in molti campi presenta eccellenze internazionali, di cui andare fieri e da supportate il più possibile con investimenti adeguati.
Credo che il rilancio della ricerca in Italia debba partire da queste eccellenze. Per prima cosa però, vorrei fare un breve riassunto su alcuni importanti momenti che la ricerca italiana in generale ha vissuto recentemente. Quando lasciai l'Italia nel 1999, non si sentiva parlare troppo di finanziamenti europei per la ricerca, e, per la maggior parte, era il CNR a sponsorizzare la ricerca universitaria nei vari settori scientifici. Ma il ridursi progressivo di questi fondi, almeno in senso relativo, all'economia italiana e all'inflazione dal 1999 a oggi, ha portato molti gruppi di ricerca a cercare fondi europei ed esteri, ed al tempo stesso a sviluppare programmi molto più aggressivi per il lancio di startups e spinoffs universitarie. Per fare un esempio oggi al Politecnico di Torino, solo il 30% del budget proviene dal governo italiano. Il rimanente 70% proviene da fonti esterne all'Italia, come l'Europa, oppure dalla incubazione/
Il Politecnico di Torino è emblematico del cambiamento che sta avvenendo nella ricerca italiana. Soffrendo per la carenza di fondi per tanti anni, alcune università italiane si sono adattate, quasi in una sorta di processo evolutivo di selezione naturale, e si sono trasformate in università globali, affermandosi a livello europeo ed internazionale. Questo processo ha anche avuto il beneficio di avviare la guarigione di queste università da uno dei malanni per me più gravi dell'università italiana negli ultimi cinquant'anni: il provincialismo o isolamento intellettuale.
Questi due passaggi, l'evoluzione di alcune università a centri veramente internazionali e l'abbandono di una "forma mentis" provinciale sono secondo me due importantissimi momenti per l'università e la ricerca in Italia.
Il mio punto di vista è semplice. Queste università d'eccellenza sono le realtà italiane su cui il governo deve di nuovo iniziare a fare investimenti strategici. Si sono auto-selezionate come emergenti in vari ambienti internazionali, come le più competitive. Sono queste le realtà che hanno al momento la maggior probabilità di successo nel lungo periodo.
A questo punto, come misurare il prestigio e l'impatto dei centri universitari italiani diventa importante. L'idea che proporrei è basata sul considerare le università come i nodi di una rete mondiale della ricerca, ed effettuare una analisi di questa rete simile a quanto viene fatto nell'ambito dei social network.
Molto spesso i gruppi di ricerca fra università collaborano, e quindi il numero delle collaborazioni fra due università e i fondi investiti o condivisi possono rappresentare un “peso” (metrica di misura) che viene assegnato alla connessione. Nel mondo accademico ciò che conta molto sono le lettere di referenza di un accademico nei confronti del lavoro di un altro. Perché allora non andare oltre e non usare il numero di collaborazioni come l'equivalente dell'apprezzamento della ricerca di una università internazionale verso la sua corrispondente italiana?
Perché non pesare l'importanza di una università italiana sulla base del numero di connessioni, cioè di collaborazioni, con università internazionali di alto livello che ha?
A livello di valutazione interna della qualità di alcuni centri universitari d'eccellenza, i vari gruppi devono tenere una "mappa" molto aggiornata delle loro collaborazioni internazionali presenti e passate. Molte università d'eccellenza italiane hanno avviato programmi di visita per professori internazionali. Quando il Prof. Francesco Profumo fu ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, emise un decreto ministeriale secondo il quale è possibile per un professore italiano docente presso una Università estera avere un doppio incarico durante i mesi estivi in una università italiana. Questo decreto sta per essere convertito in legge ed è stato pensato per dare l'opportunità ai professori italiani residenti all’estero di riconnettersi con la realtà italiana in un proficuo interscambio.
Il mio punto di vista è il seguente: dal momento che molte università d'eccellenza in Italia utilizzano una analisi della loro rete di collaborazioni, perché non utilizzare questi dati per definire i centri d'eccellenza in Italia, i centri più preparati a raccogliere le grandi sfide della ricerca internazionale?
Questa analisi potrebbe poi essere utilizzata dal governo nel decidere stanziamenti strategici per la ricerca. Questa stessa analisi metterebbe in luce anche le università che meglio potrebbero attrarre i cervelli italiani attualmente all'estero. Questo perché uno dei punti importanti per un ricercatore all'estero è entrare a far parte di un centro ricerche ben "connesso" a livello internazionale, e con ottimi piani di internazionalizzazione della ricerca sviluppata internamente.
Cari lettori, aspetto le vostre opinioni e i vostri punti di vista, il mio è in un dialogo aperto.
A presto, un caro abbraccio a tutti voi e all'Italia,