“Non mettete sui social le foto dei vostri figli” ha detto ieri solennemente il Garante per la Privacy Antonello Soro. Perché? Perché possono finire nei siti di pedofilia. Ho grande rispetto del Garante per la Privacy ma l’allarme mi sembra da un lato esagerato e dall’altro fuori bersaglio. Esagerato perché non è vero che le foto che mettiamo su Facebook, per citare il social network più usato, siano automaticanente visibili a tutti. E’ possibile calibrare la privacy in modo da farle vedere a tutti (fortemente sconsigliato), oppure solo agli amici intimi, agli amici normali e ai conoscenti. O addirittura è possibile creare gruppi di amici e famigliari con cui condividere certe informazioni. Che al quel punto sono al sicuro.
L’allarme di Soro è poi fuori bersaglio perché il problema delle foto non riguarda tanto i genitori, che pure spesso postano e condividono con orgoglio la vita dei figli; quanto piuttosto i ragazzi che postano e condividono quasi tutto quello che fanno e di solito non su Facebook come è noto ma su Instagram (dove comunque è possibile calibrare la privacy nella stessa maniera). Perché è un problema? Perché condividere qualcosa in rete è molto diverso dal dirsela al bar: resta. Come hanno imparato una dozzina di studenti ammessi nella più prestigiosa università del mondo, Harvard; ammessi e poi respinti per quello che avevano postato in un gruppo chiuso su Facebook. Battute volgari, sessiste, violente. Indifendibili. Magari solo goliardate fra ragazzi: ma scritte nero su bianco sulla bacheca di un social network fanno un altro effetto e sono costate loro l’allontanamento dall’università dove erano stati ammessi. Una punizione molto severa che rischia di condizionare per sempre il loro futuro. Per questo, ragazzi, prima di postare e condividere qualcosa, pensateci. E poi, se ci avete pensato bene, postate pure.