Proprio ieri parlavamo della proposta di Bill Gates di mettere una tassa sui robot che ci levano il lavoro. E di quanto questo argomento sia popolare anche perché i robot non possono protestare (lo fanno le aziende che li producono semmai, ma sono destinate a perdere il confronto vista la crisi economica che viviamo).
La tassa sui robot in realtà è una espressione inesatta: infatti non sono solo i robot tecnicamente a levarci il lavoro. E’ la rivoluzione digitale che sta trasformando interi settori industriali, anzi tutta la nostra vita. Prendete i giornali: oggi possiamo leggerli su un tablet. Basta un clic. Fino a pochi anni fa andavamo in edicola dove quella copia veniva portata da un distributore con un furgone sul quale era stata caricata in una tipografia dove era stata stampata con una carta che a sua volta era stata prodotta da qualche parte e trasportata fin lì. Un edicolante, un trasportatore, uno stampatore, un altro trasportatore, un produttore di carta. Ora tutto questo lavoro che c’era dietro una copia di giornale, tutte queste professionalità sono sparite o stanno sparendo. Basta un clic.
Si può tornare indietro? No. Il digitale migliora la vita e crea a sua volta occupazione, un’occupazione diversa, in settori diversi e nuovi. Crea occupazione ma solo se abbiamo le competenze adeguate: in Europa in questo momento ci sarebbero quasi un milione di posti di lavoro vacanti legati al digitale. Attendono persone competenti che non ci sono sul mercato. Che spreco.
E' giusto tassare l'innovazione?
La tassa sui robot è quindi più giusto chiamarla una tassa sull’innovazione o un tassa sul futuro (qui una analisi approfondita di Giorgio De Rita). E non è una cosa bella, diciamocelo. Bill Gates se ne rende conto e infatti nella sua proposta spiega che l’innovazione dovrebbe solo "rallentare un po’", per darci tempo di gestire la transizione verso un domani che ancora una volta sarà migliore, come accaduto con le precedenti rivoluzioni industriali. La gestione della transizione è quello che serve, è l’obiettivo della tassa: può darsi che sia necessaria, ma transizione non vuol dire restare fermi. L’esempio più eclatante in queste ore viene dalla vertenza dei tassisti. Che protestano contro il fatto che è possibile fare loro concorrenza con una app che ha sede a San Francisco (Uber) e che consente di offrire un servizio spesso migliore.
Hanno torto i tassisti se protestano contro il futuro, soprattutto quelli che non fanno nulla per migliorare il servizio (pensate a quelli che ancora non accettano una carta di credito o che non hanno un navigatore satellitare e chiedono ancora al cliente la strada migliore). E hanno più torto di tutti quelli che ricorrono alla violenza.
Ma i tassisti hanno ragione a chiedere regole, che non ci sono
Ma hanno ragione, pienamente ragione, su un punto. Hanno diritto a regole chiare e ad una transizione che li indennizzi degli investimenti sostenuti per le licenze. E invece le norme che regolano il loro servizio risalgono al 1992: non c’era ancora il web, figuriamoci le app. Nel 2008 ci si era accordati perché le auto al noleggio con conducente - gli NCC, giacché Uber sarebbe nata l’anno dopo, nel 2009 - dovessero sottostare a regole diverse, molto penalizzanti (era una specie di tassa sui robot, anche se non era una tassa). Ma nel frattempo quelle regole non sono mai state attuate. Perché? Il ministro dei Trasporti, che ora dice che “la modernità non può cancellare posti di lavoro” (ma invece lo fa, lo ha sempre fatto), ce lo può cortesemente dire?
E ora stiamo qui - con le grandi città paralizzate dalle proteste - a discutere perché in un oggetto bizzarro già dal nome, chiamato “decreto mille proroghe”, il Parlamento prorogherà la caotica situazione attuale fino alla fine dell’anno. Per finta. Perché nel frattempo il governo si accorda con i tassisti inferociti per cambiare quella norma già domani. Comunque la si veda questa storia è il fallimento della politica, quella capace di andare oltre gli annunci entusiasti (“Uber è un servizio fantastico”) e risolvere la complessità dei problemi che l’innovazione inevitabilmente crea (non a caso si chiama “disruptive”: perché qualcosa distrugge sempre).
Ecco, il timore, con la tassa sui robot di Bill Gates, è che calata in una situazione come quella italiana, quella proposta diventi uno strumento non per agganciare il futuro tutti assieme, ma per tenerlo definitivamente fuori dalla porta.