Internet doveva uccidere la musica. O almeno così si diceva quindici anni fa. Erano gli anni di Napster, un nome che era un mito nel 1999. Si andava sul sito creato da due ragazzi americani e tutta la musica del mondo era lì, gratis per te. Gratis. Un disastro per artisti e case discografiche, si diceva. Allora c’erano solo due strade: alzare le barricate, sapendo che sarebbe stato comunque impossibile fermare il futuro (molti lo hanno fatto, però, Napster ha dovuto chiudere il servizio nel 2001); oppure mettersi in marcia per provare a governare la rivoluzione digitale che stava iniziando. E’ stata una lunga marcia, ma i dati che arrivano in questi giorni dicono che la musica ce l'ha fatta. Merito dello streaming, al fatto cioè di poter ascoltare una canzone senza doverla scaricare. Pagando, però. Grazie a Spotify e Apple Music, i due servizi che vanno per la maggiore, è appena stato superato il traguardo dei 100 milioni di abbonati paganti nel mondo (questa la classifica: Spotify 43 milioni; Apple Music 20,9; Deezer 6,9; Rhapsody/Napster 4,5; Google Play Music 2,7; Tidal 1; Altri 21,4).
Negli Stati Uniti si è chiuso il secondo anno di fila in crescita e si inizia a parlare di una nuova età dell’oro come quando c’erano i compact disc: da oggi al 2020 gli incassi raddoppieranno e saranno quasi tutti dovuti allo streaming, è la previsione di molti analisti. Per il 2030 si prevede un ulteriore raddoppio per un valore stimato in oltre 100 miliardi di dollari. Vedremo, anche perché non è tutto oro quel che luccica, anche in questo caso: Spotify, che è il gigante del settore con 100 milioni di iscritti al servizio gratuito e 40 a pagamento, è valutato 8 miliardi di dollari ma non ha ancora prodotto un solo dollaro di utile. Segno che qualcosa va sistemato nel modello di business. Ma la strada è segnata. E ancora una volta, la musica ha dimostrato che il modo migliore per immaginare il futuro è provare a costruirlo.