Papa Francesco ha già concesso alcune deroghe alle rigide norme riguardanti i processi di canonizzazione, in particolare esentando dall’inchiesta sul miracolo alcuni beati. Decisioni coraggiose ma nella scia di quanto avevano fatto i predecessori: Giovanni Paolo II nel 1995 per i martiri di Kosice in Slovacchia (Marco di Križevci, Stefano Pongrácz e Melchiorre Grodziecki) e Benedetto XVI per Ildegarda di Bingen proclamata santa il 10 maggio 2012.
Anche Papa Francesco ha già usato questa procedura eccezionale quattro volte:
- il 9 ottobre 2013 con Angela da Foligno (1248-1309) e
- il successivo 17 dicembre con il gesuita Pietro Favre (1506-1546),
- l’anno dopo con il gesuita Anchieta, con suor Maria Guyart e con il vescovo Francesco de Montmorency-Laval e
- infine il 27 aprile 2014 con Giovanni XXIII, in questo caso i miracoli erano numerosi ma il Papa ha esentato da questa fase del processo.
In tutti gli altri casi appena elencati si è seguita la via della canonizzazione cosiddetta “equipollente”, pratica utilizzata nei riguardi di “figure di particolare rilevanza ecclesiale per le quali è attestato un culto liturgico antico esteso e con ininterrotta fama di santità e di prodigi”.
Da Bergoglio sarebbe lecito aspettarsi ora un altro passo avanti, cioè applicare anche alle beatificazioni (per le quali è richiesto un miracolo, contro i due delle canonizzazioni) questa prassi che appare più consona al nostro tempo rispetto a quella tradizionale, che attendendo “la conferma dal Cielo” sembra un po’ troppo simile alla “danza della pioggia”. Ci sono infatti figure di testimoni credibili, sulla cui rettitudine e fama di santità non ci sono dubbi di alcun genere. Attualmente, infatti, le cause di beatificazione - come questo blog ha sottolineato nel post sui politici in attesa di salire sugli altari - sono assolutamente troppo lunghe e costose e questo (oltre a creare molti interrogativi morali su chi ci guadagna) impedisce di fatto al popolo cristiano di avere modelli adatti ai suoi tempi.
Ad esempio, Don Tonino Bello
Uno che dovrebbe essere beatificato al più presto anche senza miracolo è don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta il cui ideale era descritto dal versetto del Salmo 32 scelto come motto episcopale: "Ascoltino gli umili e si rallegrino". E davvero don Tonino Bello è stato sempre dalla parte dei poveri, dei senza-casa, degli immigrati, degli ultimi. Campione del dialogo e costruttore infaticabile di pace, nel 1985 è stato indicato dalla Cei come presidente nazionale di Pax Christi.
In tale veste ha girato il mondo, proclamando la Parola di Dio e compiendo gesti di riconciliazione, come l'ingresso in Sarajevo ancora in guerra, dove ha profetizzato la nascita di un'Onu dei popoli capace di affiancare quella degli Stati nel promuovere esiti di pace. Nel 1992 gli era stata conferita la cittadinanza onoraria delle città di Molfetta e di Reggio Emilia, e nel 1993 quella di Tricase. Numerosissime le sue opere raccolte in volume ma più ancora ne ha compiute, testimoniando la carità di Cristo. E' morto a Molfetta, il 20 aprile 1993, "in odore di santità".
Sono state le sue ultime, parole dette nella cattedrale di Molfetta il giovedì santo del 1993, come estremo saluto. Morira' 12 giorni piu' tardi. Nel testamento, che dettò due giorni prima di morire, cioè la domenica in albis, ci sono queste altre frasi: "Ho voluto bene a tutti e sempre". "E' il giorno del Signore. Ed è bellissimo". “Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita; il sorpasso, il progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate".
"Vivere la Chiesa del grembiule"
Una delle sue espressioni più note è la “Chiesa del grembiule”. L’immagine nasce dall’icona evangelica di Gesù che si fa servo; “vivere la Chiesa del grembiule significa vivere la Chiesa del servizio”, spiegava il vescovo di Molfetta e nelle parole di Papa Francesco sulla chiesa in uscita ci sono molte assonanze con la “Chiesa col grembiule” di don Tonino. C’è un’assonanza molto forte tra i due che viene da lontano, dal Concilio. Verso la fine del Vaticano II, un gruppo di vescovi (principalmente latinoamericani ma c’era anche Lercaro) si radunò per siglare il patto delle catacombe che invocava “una Chiesa dei poveri, una Chiesa povera in cui i vescovi erano con il popolo e oggi Bergoglio vive questo stile. Don Tonino aveva assimilato questa idea del Concilio: un episcopio aperto, uno stile sobrio, uno stare con la gente…
Ai funerali nel 1993 hanno partecipato decine di migliaia di persone accorse dall'Italia e dall'estero. Il cimitero di Alessano, dove oggi riposano le sue spoglie, è costante meta di pellegrinaggio. Non si contano le persone, i gruppi, le comunità che si ispirano al suo messaggio; così come le scuole, le strade, le piazze, le realtà aggregative che si intitolano al suo nome. Tutto questo si chiama "fama di santità" .
Il secondo: Luigi Rocchi
Un altro da beatificare “sull’unghia” sarebbe il laico Luigi Rocchi, che negli anni ’70 scrisse 1700 lettere scritte battendo i tasti della sua Olivetti con un bastoncino fra i denti, dal lettuccio sul quale era immobilizzato. “Ali spezzate… ali portanti” le sue note per il “Messaggero di Sant’Antonio”, dove ha tenuto a lungo una rubrica dialogando con i lettori. A 38 anni dalla morte, avvenuta a Tolentino il 26 marzo 1979, vale la pena riprendere in mano gli scritti di Luigi Rocchi, vero apostolo della sofferenza e annunciatore del Vangelo in tutti gli ambienti, che raggiungeva in modo molto concreto pur senza uscire mai di casa. Due anni fa Papa Francesco lo ha dichiarato “venerabile”, riconoscendone le “virtù eroiche”.
Affetto dal morbo di Duchenne, una forma di distrofia muscolare progressiva, grazie alla fede intensa che gli aveva trasmesso la mamma Maria, “Luigino” sapeva essere un consolatore per quanti soffrono nel fisico o nel morale. E ciò grazie a una fitta corrispondenza, interamente recuperata perché i destinatari l’hanno conservata con cura, colpiti dalla profondità delle riflessioni.
Fino alla sua morte, avvenuta nel 1979, per 28 anni Rocchi è stato nei fatti un “crocifisso vivo”, totalmente immobilizzato, prima in carrozzella e poi nel suo letto, dal quale pregava: “Ti adoro mio Dio, Ti amo con tutto il cuore, Ti ringrazio di avermi creato ... anche se Ti sono scappato un po’ male, va bene lo stesso!”.
“Voglio imitare Gesù, che non ha amato la Croce, ma ha amato noi a costo della croce”, spiegava mettendo ben in chiaro che non si tratta di “soffrire volentieri, piuttosto di decidere volentieri di far fruttare anche la sofferenza”. Lui faceva così. “Non mi sento - sono ancora le sue parole - né solo né inutile, perché ho amore per tutto e per tutti”, continuando a “sentirmi un niente, ma un niente visitato da Dio”.
Anche se la sua immobilità si fa sempre più totale e le sue mani “non sono buone neppure più a scacciare una mosca dal naso”, continua a far spedire anche una ventina di lettere al giorno, per incoraggiare, sostenere, consigliare. Gli sono vicini il futuro cardinale Ersilio Tonini, quando era vescovo di Macerata e Tolentino, cioè dal 1969 al 1975, e l’allora arcivescovo (oggi cardinale) Loris Francesco Capovilla, che era prelato di Loreto. Lo storico segretario di Giovanni XXIII amava chiamare Luigi “il mio maestro”. “La porta del Paradiso - scriveva Rocchi - è stretta e io sono grosso. Allora, il buon Dio, che non vuole lasciarmi fuori, mi ‘smonta’ di qua per rimontarmi di là. Ed io sono contento che sia così! Non mi importa delle cisti, degli ascessi e delle fistole che mi tormentano. Importa avere un piccolo posto in Paradiso, magari dietro la porta: basta starci dentro, no?”.