Finché non lo provi non ci credi: che i mattoncini della Lego (sì, proprio quelli che hanno accompagnato la tua infanzia e che poi hai riproposto ai tuoi figli, quelli che ti ritrovi dappertutto, che ti hanno rigato il pavimento e sui quali non poche volte hai rischiato di scivolare) possono aiutarti a risolvere dei problemi e a prendere delle decisioni; che si può pensare con le mani; che come diceva Platone, che non era il creativo di un’azienda produttrice di giocattoli, "si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione". Per credere che la metodologia Lego® Serious Play® (LSP) è veramente efficace, e non è l’ennesima trovata modaiola e simpatica per rendere più appetibili i meeting aziendali, bisogna provarla. Me l’ha detto da subito Simona Orlandi, esperta di marketing intelligence e facilitatrice certificata di questo metodo, quando ne abbiamo parlato per la prima volta. La mia curiosità era sorta dopo aver letto su Repubblica di un dopo cena organizzato dall’intergruppo Innovazione della Camera, che in coda al dolce aveva aggiunto una pietanza a base di mattoncini preparata e servita da un esperto in materia come Giorgio Beltrami: avevo pubblicato su Facebook l’articolo in questione interpellando Paolo Coppola, uno dei partecipanti a questa serata particolare; il post era stato notato da un’amica, che mi ha chiesto se volevo approfondire e mi ha messo in contatto con Simona Orlandi (https://www.linkedin.com/in/simonaorlandi/). Con quella disponibilità e quell’entusiasmo che solo i veri innovatori hanno, sempre pronti a investire tempo e energie per condividere le loro scoperte, Orlandi mi ha raccontato la storia di questa proposta e non ha esitato a mettersi a disposizione per realizzare un workshop a Trieste: a 700 km da casa sua, non proprio dietro l’angolo. Ma si sa: il cambiamento non conosce distanze.
"Ho incontrato LSP qualche anno fa ed è stato amore a prima vista!", mi spiega Simona. "Ero alla ricerca di una modalità di facilitazione che mi permettesse di mettere in pratica i valori e i principi della Co-Creazione e del Coaching, soprattutto una modalità che mettesse la persona e i suoi talenti al centro del discorso. Che poi, se lo si guarda da una prospettiva più ampia, non solo di business, significa stimolare le persone a diventare respons-abili, e cioè abili ad agire nelle tante situazioni che la vita (ma a volte anche una sola giornata!) ci presenta. Da allora ho avuto la possibilità di testare l’efficacia di Lego® Serious Play® in tanti contesti, sia per tematiche di business che di team making & development, e più recentemente anche nel dialogo con il consumatore".
E così arriviamo a un assolato venerdì di maggio in Laby (http://www.laby.trieste.it), un posto non casuale: uno spazio di coworking e cokids ontologicamente predisposto a condividere e a contemplare nuove prospettive. La condivisione, infatti, è il primo ingrediente di quest’esperienza, che si propone di formare persone che collaborino nel risolvere i problemi, nel generare idee e costruirle insieme nell’ambito lavorativo; del resto anche nel gioco, attività libera per eccellenza, cooperare è necessario per vincere, se si è in squadra, e proprio giocando si può osservare come gli altri interagiscono e come coniugano strategia e intuizione.
Nata alla fine degli anni Novanta, quando la Lego andò in crisi a causa dell’affermarsi di nuovi giochi, questa metodologia è stata perfezionata grazie a un lavoro di team tra l’Institute for Management Development di Losanna e Robert Rassmussen (https://www.linkedin.com/in/robert-rasmussen-7b8179), direttore della Ricerca educativa di Lego, che nel 2004 lascia l’azienda e comincia l’attività di consulenza su LSP, diventato open source nel 2010: oggi chiunque può accostarsi ai materiali e agli strumenti di formazione senza dover ottenere un contratto di licenza con Lego®; anche Orlandi, che per oltre vent’anni ha lavorato in diverse multinazionali, ha imparato alla scuola di Rassmussen e ora supporta persone, team e organizzazioni aiutandoli a portare alla luce quelle idee, visioni e intuizioni che spesso vivono all’ombra di credenze, schemi ricorrenti e paure. In fondo non si tratta di trasmettere nulla, ma solo di tirar fuori il meglio che c’è in ognuno di noi e metterlo sul tavolo a servizio della comunità. Quel meglio che spesso resta sepolto a causa della timidezza, della mania di protagonismo di uno o più d’uno, del timore del giudizio, del “si è sempre fatto così”, delle gerarchie castranti. Non vasi da riempire con un workshop di quattro ore, dunque, ma candele da accendere.
È scontato che quando si sceglie di provare Lego® Serious Play® si parte da una convinzione profonda di base: che sono le persone la chiave di successo di qualsiasi realtà (si tratti di un’azienda, di un ente pubblico, di un’associazione) e perché ciò non sia una mera enunciazione di principio occorre che ognuno abbia la possibilità di esprimersi al meglio, in un contesto accogliente, democratico e non giudicante, dove tutti si tolgono la divisa e smettono i rispettivi ruoli. Esattamente quello che abbiamo sperimentato qui a Trieste. Ma facciamo un passo indietro per dare un’occhiata a come era composto il gruppo: 11 persone, che in gran parte non avevano mai lavorato insieme e in parte non si erano mai viste prima, 3 uomini e 8 donne, imprenditrici, libere professioniste, provenienti dal privato sociale e dalla sanità, più della metà dipendenti pubblici. C’era non a caso molta Pubblica Amministrazione in questo gruppo, perché la PA è un luogo in cui più di altri si fa fatica a lavorare in squadra, a condividere le competenze, a immaginare soluzioni alternative. Ed è un vero peccato, perché la PA è una cassaforte piena di esperienza, know-how, conoscenza dell’umanità più profonda, e una PA efficiente è requisito fondamentale per garantire ai cittadini i loro diritti: quello che sembra mancare sono le chiavi per aprire questa cassaforte, nella consapevolezza che la conoscenza che ci trasforma è una conoscenza condivisa. "Recentemente — mi racconta ancora Simona — un mio collega ha utilizzato LSP per supportare una candidata sindaca a fissare i temi del programma e a dialogare con i cittadini sulla problematica più urgente da risolvere in città".
Con è allora la preposizione fondamentale, quella del cambiamento: non potevamo non inserirla nel titolo del nostro workshop, “Con_nessioni”. Lo schema seguito nel pomeriggio è stato quello classico: si è partiti con un giro di riscaldamento, utile a familiarizzare con la metodologia, e la richiesta da parte della facilitatrice di costruire una torre, una torre che dicesse qualcosa di noi, con un kit di mattoncini uguale per tutti e con un ristretto numero di pezzi a disposizione, l’unico vincolo era dato dal fatto che si doveva partire dalla base nera e concludere con un fiorellino verde. Superata la tentazione di cadere in un approccio intellettualistico (pensare a cosa vorrei far dire alla torre e quindi piegare i mattoncini alle idee) è emerso subito un elemento fondamentale: le nostre mani sanno più di quello che pensiamo di sapere. Collegate alle cellule cerebrali per il 70-80%, conservano quello che la memoria non riesce a immagazzinare ed esprimono quello che siamo: capacità che riemerge nel momento in cui condividiamo agli altri il nostro modello e gli diamo un nome.
Si entra quindi nel vivo e ognuno ha 5 minuti di tempo per costruire un modello che racconti cosa significa per lui o per lei il tema Connessioni nella sua attività professionale: l’invito della facilitatrice è a restare concentrati sul presente, sulla realtà; i pezzi a disposizione sono tantissimi, sparsi su vari tavoli, e di vario tipo. Quello che è fondamentale, sia nel giro di riscaldamento che ora, è che si costruisce un modello individuale, che facilita la partecipazione di tutti, dà voce e spazio a ognuno, senza che qualcuno sovrasti l’altro. Ed è chiaro che non esistono modelli giusti e modelli sbagliati. Si lavora di metafore, modelli reali di concetti e idee realizzati con i mattoncini: la costruzione di metafore agevola l’espressione delle proprie idee, che vengono immediatamente rese in forma di prototipo. Terminati i modelli, prima di condividerli veniamo invitati a proiettarci nell’aspirazione: cosa vorremmo togliere o aggiungere nella nostra visione ideale del tema? Come vorremmo si sviluppassero le nostre connessioni? Anche qui le mani fanno il miracolo: io ad esempio ero convinta che avrei tolto la tartaruga, che rappresentava la lentezza di certi processi, e invece mi sono ritrovata a lasciarla, perché ci sono percorsi che hanno bisogno di maturare, e ad aggiungere una carriola per raccogliere le zavorre, oltre a sostituire una finestra bianca con una rossa e viola, simbolo per me dell’opportunità inaspettata, non prevedibile.
E arriva il momento della condivisione attraverso lo storytelling, modalità che consente una comunicazione più articolata e discorsiva: è incredibile come ogni frutto sia buono e contenga dei semi per il giardino comune. Tutto ciò sarà ancora più evidente quando, un attimo dopo, passeremo a costruire il modello condiviso: ciascuno è chiamato a lasciare qualcosa della sua visione e ad accogliere qualcosa dell’altro, solo però con l’accordo di tutti. Scatta la contaminazione: il modello che vien fuori non è semplicemente la somma dei modelli individuali, è davvero l’esito di un lavoro di squadra. Del resto questo metodo, che attraverso il gioco facilita gli incontri, la comunicazione e la risoluzione dei problemi, è adatto anche a far lavorare insieme persone che non si conoscono ed è particolarmente indicato quando si ha a cuore la partecipazione di tutti i membri di un team, nessuno escluso, e si vuole incoraggiare il pensiero creativo ottimizzando i tempi. L’approccio, lo avete visto, è estremamente semplice: il facilitatore pone una domanda (la sfida) oggetto del workshop; a questa i partecipanti rispondono attraverso la costruzione di un modello che rappresenta la loro risposta che poi condivideranno con gli altri partecipanti con il supporto delle metafore (lo storytelling e la riflessione). Il tutto attraverso il gioco, che stimola l’utilizzo di entrambi gli emisferi del cervello e crea un ambiente libero del concetto di giudizio, dove si agisce in maniera spontanea e dove vengono meno le barriere psicologiche, che spesso frenano la capacità innovativa. A condizione naturalmente che ci sia a monte un leader, un capo, un manager consapevole di non avere tutte le risposte e disposto ad accogliere spunti e soluzioni proposti dai suoi collaboratori (gruppi internazionali come Coca-Cola, Microsoft, Tupperware, Google, Yahoo, solo per citarne alcuni, in Italia Trivioquadrivio, evidentemente li hanno, perché utilizzano questo metodo con successo). In uno scambio che può avvenire solo in un contesto orizzontale, dove non ci sia come quasi sempre accade un 20% che parla e dispensa il Verbo e un 80% che ascolta senza interagire. Lego® Serious Play® e quell’ossimoro (gioco serio) contenuto nel suo nome, che è poi anche la sua essenza, permette tutto questo. Ma per crederci bisogna provarlo: solo in questo modo potremo sperimentare che con le mani puoi sbucciare le cipolle e accarezzare il gatto, ma puoi anche risolvere problemi complessi e rafforzare un team. Bisogna che lo dica a Zucchero.