Senza inutili allarmismi, c’è però un rischio concreto che l’Italia perda gradualmente posizione nel gruppo delle grandi potenze industriali anche per la mancanza di talenti. Solo considerando che, secondo il Global Competitivity Index, siamo al 74esimo posto al mondo per spesa nel terzo ciclo formativo, al 57esimo nel lifelong learning e al 114esimo nello sviluppo dei lavoratori dipendenti ci fa capire l’urgenza di una politica industriale che parta dallo sviluppo e dalla promozione delle competenze nel nostro contesto produttivo.
Non solo la fuga di cervelli. Il problema è che non li attiriamo
Il problema non è però, come ogni tanto si legge, nel fatto che i ricercatori italiani vadano all’estero, quanto nel fatto che il nostro Paese, le nostre Università e i nostri centri di ricerca non riescono ad attrarre nella stessa quantità laureati e ricercatori dall’estero, così che il saldo tra l'esportazione e l'importazione di ricercatori si ferma su un -13.2% a differenza di altri Paesi europei in pareggio (Germania) o con un saldo attivo (Svezia +20%, UK +7,8%, Francia +4,1%).
Ma perché l’Italia riesca ad attrarre con maggior successo talenti dal resto del mondo, ci vuole un humus fertile in grado di stimolare e far germogliare la voglia e lo spirito innovativo, la voglia di fare impresa e un’amministrazione pubblica che sia supportiva, invece di mettere vincoli e balzelli. Il cambiamento e l’innovazione, alla base dello sviluppo economico e della creazione di posti di lavoro, in particolare in un momento di grandi cambiamenti, non nascono per caso. La pietra angolare alla base di un Paese che cresce è una cultura che apprezzi e ritenga vitale la capacità di ricerca e di sviluppare business.
Il nemico da sconfiggere è la burocrazia
Oggi in Italia purtroppo non è così e inoltre si presentano tuttora difficoltà amministrative di fronte a chi decide di mettersi in gioco in questi campi, anche a causa dei tanti centri decisionali e regolatori presenti. In un mondo che cambia velocissimo, solo chi anticipa o perlomeno gestisce la trasformazione può sopravvivere. E il nostro Paese deve imparare a cambiare.
Nel detto comune ci consideriamo un popolo flessibile, ma nella gran parte dei casi questa capacità di adattamento viene esercitata mantenendo però modelli di comportamento vecchi. Non funziona: il paradigma è diverso. I vecchi modelli di gestione aziendale, di attività e servizi della PA, di insegnamento, di politica, di società nel suo complesso non servono più nel mondo attuale. È la continua innovazione dei modelli, la flessibilità nel progettare e utilizzare nuovi processi, la cultura dell’apprendimento continuo e della continua innovazione che permettono a una azienda, come a un paese, di svilupparsi e prosperare.
I servizi: una miniera inesplorata
Nel campo della produzione del valore, dopo anni senza difesa delle attività produttive, ci si sta ora rendendo conto che la creazione dei posti di lavoro nasce dalla produzione, non tanto e non solo per la mano d’opera diretta nella manifattura, quanto per i servizi che vengono generati. Così Francia, UK, Germania, e gli Stati Uniti con la nuova Presidenza, hanno lanciato piani e programmi importanti di industrializzazione.
In parallelo va però segnalato che lo sviluppo e l’introduzione della robotica e dell’Intelligenza Artificiale, che sta prendendo corpo con velocità crescente e i cui effetti sui posti di lavoro e la società nessuno è oggi in gradi di prevedere, richiedono che ci si focalizzi sulla creazione di quelle competenze in grado di effettuare attività di sviluppo e ricerca in questi settori e in quei servizi per i quali non sembrerebbe immediata la possibilità di sostituzione delle attività umane. È necessario quindi evitare di focalizzarsi sulle attività dirette, ma sviluppare tutto l’indotto di servizi.
Industria 4.0, non basta ammodernare i macchinari
Se guardiamo la situazione italiana, il piano industria 4.0, portato avanti con grande determinazione dal Ministro Calenda, è certamente un piano innovativo per il nostro Paese e di grande portata. Ma, come detto, la trasformazione delle industrie non avviene solo ammodernando i macchinari. Nel mondo dell’internet of things, le macchine della produzione sono un tassello all’interno di un processo che parte dai clienti, va ai fornitori e ritorna ai clienti con un flusso integrato, flessibile e in grado di utilizzare in modo semplice e automatico l’enorme massa di dati che i sensori e le interconnessioni mettono a disposizione.
La trasformazione verso i processi digitali, si basa dunque sì su investimenti hardware, ma soprattutto su nuovi processi e applicazioni. Questi sono costi in generale non ammortizzabili (opex) e che quindi non beneficiano dei provvedimenti approvati fino ad ora; per questo motivo riteniamo essenziale che vadano sviluppate iniziative di incentivazione per la gestione dei processi aziendali, a partire, ad esempio, da un più deciso supporto all’utilizzo delle tecnologie cloud, anche in outsourcing.
L'unica via di salvezza è l'apprendimento continuo
Considerando infine la struttura dei settori industriali presenti in Italia, è quindi essenziale che le industrie, a partire dalle PMI, completino la trasformazione all’economia digitale: questo dipende dalla cultura prevalente che deve essere sempre più business-oriented, orientata sia a livello personale che aziendale al continuo apprendimento, dalla diffusione di competenze innovative e dalla possibilità di realizzare gli investimenti necessari.
Su questi punti serve un patto tra le tutte le forze politiche responsabili ed è necessario correre perché purtroppo i dati sulla disoccupazione dei giovani non lasciano spazio a ulteriori perdite di tempo.