Un mondo disintermediato, come il nostro, fomenta la proliferazione dell’autoreferenzialità. Ovunque è tutto un manifestarsi di sedicenti maghi della data science che incrociano tweet e tirano giù a caso conclusioni definitive e con forte impatto narrativo per alimentare il loro business. Idem per opinionisti, influencer, fotografi, artisti, scrittori.
Tutti pronti a spiegare tutto. Sempre e comunque
Vedo folle oceaniche di intellettuali che sono in grado di spiegare, leggere e interpretare un fenomeno che in realtà è molto più complesso ed articolato di quanto si possa immaginare.
L’espertismo improvvisato ormai è diventato sistema e il dibattito sulle fake news o post-truth ovviamente non ne è immune. Anzi, succede che proprio parlando di post verità e discutendone pubblicamente, si accendano quei flame, quella ridda di commenti tipica della discussione sui social. Insomma anche le modalità con cui discutiamo di post verità assumono le stesse dinamiche che quella discussione vorrebbe arginare. E’ un paradosso; e in tutto ciò c’è pure chi si diverte a proporre leggi surreali.
Il cicaleccio copre la verità
Cicaleccio e rumore che complica all’inverosimile la comprensione di un fenomeno che richiede invece molta attenzione e delicatezza per essere dipanato in tutte le sue molteplici sfaccettature e implicazioni. E richiede forse uno sforzo di innovazione anche nei paradigmi di analisi.
Molto probabilmente, la definizione più appropriata di post-truth è quella che recita “tutti spiegano senza capire quello di cui parlano”.
Per fortuna però, il mondo della ricerca sta sempre (almeno in teoria) un passo in avanti rispetto al dibattito pubblico e quindi, da ricercatori attivi su questo fronte, abbiamo il dovere, e la necessità di fare il punto e per lo meno cominciare a portare altri elementi su cui discutere e ragionare.
Analisi delle narrazioni
Quando insieme a Fabiana Zollo, Michela Del Vicario, Antonio Scala e altri abbiamo deciso di avventurarci su questo specifico campo di ricerca, abbiamo scelto di cominciare la nostra analisi studiando come due tipi di narrazioni tra loro contrapposte, quelle legate ad ambienti complottisti da un lato e quelle più orientate sotto il profilo scientifico dall’altro, venivano fruite dagli utenti di Facebook.
L’assodato di partenza (ora incluso anche nel Global Risk Report del World Economic Forum del 2017) era quello che un ambiente fortemente disintermediato come quello dei social ha devastato il sistema informativo che conoscevamo. In pratica, si osserva che che sempre più persone si informano direttamente passando per Facebook e che queste persone non avevano altra bussola che quella di confermare i propri pregiudizi.
Si cercano conferme e non verifiche
Nel supermercato di informazioni internettiano andiamo a cercare e troviamo le fonti che meglio soddisfano la nostra visione del mondo e finiamo per entrare in gruppi di persone simili a noi per interesse e visione.
Insieme alla tribù convogliamo all’interno del gruppo tutte le informazioni a supporto della narrazione che ci tiene assieme (non importa che siano vere o false) e ignoriamo tutto ciò che va a contrasto. Tutti noi cerchiamo e interpretiamo le cose in modo che portino evidenze a sostegno delle nostre convinzioni. Per contrasto rifiutiamo tutto quello che non va in quella direzione.
Pensiamo che la matrice che spinga a queste conclusioni possa essere legata alla difesa identitaria, alla coerenza, o indotta dall’appartenenza al gruppo sociale.
Questa dinamica sembra predominare anche il dibattito odierno, soprattutto quello americano, in tema di fake news.
Il confirmation bias, dicevamo, è impietoso e acceca tutti noi, al punto che non è poi così strano che qualche debunker abbia preso male i nostri risultati.
Al contrario, il Washington Post, invece, chiude la colonna “What was fake on the internet this week” citando i nostri studi.
L'algoritmo della verità
Siccome circola l’idea che sia possibile costruire un algoritmo in grado di discriminare le notizie false ci siamo posti il problema.
Sappiamo da alcuni teoremi in logica formale che una macchina non è in grado di farlo. C’è chi ha proposto la bislacca idea di fare quindi una lista delle fonti da ritenere poco attendibili. L’unica cosa che rimaneva da verificare era se ci fossero differenze nel modo in cui informazioni verificate e non venissero fruite dall'utente per capire se è legittima la storia di pretendere un’automazione del processo di discernimento. E no, niente, non è possibile (qui lo studio).
Quindi il problema delle fake news è qualcosa di molto più vasto e articolato. Non è una questione facilmente riconducibile a vero e falso. Riguarda invece il rapporto con le narrazioni e la fatica del sistema informativo nello scenario dei social. Di nuovo si ritorna alla centralità del confirmation bias. Piano piano ci stanno arrivando tutti.
Da allora abbiamo affinato la nostra ricerca e l’abbiamo portata ad analizzare non più due modelli distinti e contrapposti di narrazione, ma siamo passati ad un’analisi più generale della fruizione lato utente delle notizie su Facebook e su Twitter.
Una dialettica polarizzante
Nello specifico, negli ultimi lavori, ci siamo concentrati sul consumo di news delle testate giornalistiche tramite i social rispetto al tema della Brexit e del Referendum Costituzionale Italiano.
Quello che abbiamo osservato è amaramente identico a quello che trovavamo negli studi precedenti. Più si è attivi, più ci si limita a poche testate formando gruppi segregati e di narrazioni che danno un peso diverso e opposto ai concetti. Una dialettica segregante e polarizzante dove la mediazione non trova posto. E questo è vero sia su Twitter che su Facebook. Su quest’ultimo in particolare abbiamo notato che più gli utenti sono attivi più tendono a confinare la propria attenzione su poche e precise testate. Lo abbiamo visto anche analizzando il rapporto con le testate giornalistiche degli utenti su Facebook su 376 milioni di utenti su scala globale.
La polarizzazione si riflette in modo drammatico nel modo in cui le informazioni vengono fruite e commentate. Simmetrie di una regolarità quasi matematica. Un gioco di contrapposizioni e argomentazioni che si amalgamano per opposti.
Il problema delle fake news è solo la punta dell’iceberg. Il vero mostro da combattere è la polarizzazione e la segregazione. Il sistema informativo non domina più i processi di selezione dei contenuti, ma li insegue senza riuscire a imporre una agenda o un criterio. Davanti alla complessità e alla proliferazione delle fonti, l’umano che è in noi si manifesta e ci porta a consumare le notizie secondo schemi ai quali nessuno di noi sfugge.
E' l'ora di qualcosa di nuovo
Ora però, ed è questa la nota positiva, siamo in grado di ricostruire in maniera automatica i postulati su cui si fonda la narrazione di un gruppo (echo-chamber) e identificare i tratti tipici che differenziano i gruppi e i loro postulati narrativi. In parole povere siamo in grado di determinare i tratti distintivi che polarizzano il discorso pubblico su specifiche questioni (almeno sui social), e questo potrebbe essere di grande aiuto nel capire cosa non torna nella dialettica e andare oltre il fact-checking. Infatti, c’è da capire cosa muove una persona a prendere una narrativa piuttosto che un’altra, quali sono i suoi drive e i suoi bisogni. Ora l’ipotesi che stiamo verificando è se la negatività del dibattito e la polarizzazione abbiano un ruolo nella diffusione delle fake news (che non è prerogativa di un mondo specifico, ma di ogni narrazione).
L’informazione è un servizio fondamentale per una società democratica e non può prescindere da chi la fruisce. Se è vero che un essere umano si perde nel momento in cui perde la sua narrazione. Sta succedendo così anche per questo sistema: la narrazione dominante non regge più le contaminazioni e la mancanza di risposte e fatica ad adeguarsi. E nel frattempo tutto si disgrega. E’ ora di qualcosa di nuovo, ma tarda ad arrivare. Stay tuned.