L’Unione Europea, l’Unione Africana, le Nazioni Unite e l’Organizzazione internazionale della Francofonia si sono dette “profondamente preoccupate” per la grave situazione in cui versa il Kasai, regione del centro della Repubblica democratica del Congo. Ecco i fatti. I miliziani di questa regione hanno teso un agguato ad un convoglio militare, uccidendo 40 persone. Ma l’orrore va oltre. I militari sono stati decapitati. E non c’entra nulla il terrorismo islamico. E’ l’attacco più sanguinoso contro le forze di sicurezza della Repubblica democratica del Congo, in questa regione, dall’inizio della ribellione, nell’agosto scorso. Le quattro organizzazioni, attraverso una nota, condannano “questo atto ignobile”.
Kabila, il presidente irremovibile
L’attacco, con molta probabilità, sarebbe una vendetta per l’uccisione del leader della formazione ribelle Kawmina Nsapu. Questa potrebbe essere la motivazione ufficiale. Ma, l’attacco, si inserisce in una situazione di forte instabilità in cui versa il paese intero. Ed è l’ennesimo conflitto che oppone il potere centrale di Kinshasa con le varie formazioni nemiche del presidente Joseph Kabila che, dopo quindici anni, non ha nessuna intenzione di lasciare il potere, nonostante due mandati conclusi e il divieto al terzo scritto nella Costituzione del Paese. Tutto ciò nonostante sia stato siglato un accordo, il cosiddetto “accordo di San Silvestro”, con l’opposizione per arrivare ad elezioni entro l’anno e con un governo di transizione che porti il Paese, pacificamente, a eleggere un presidente. Il secondo mandato di Kabila è scaduto il 19 dicembre del 2016 e anziché convocare nuove elezioni, il presidente ha macchinato per rimandarle. L’Alta Corte, inoltre, ha applicato l’articolo 70 della Costituzione che recita: “Alla fine del suo mandato il Presidente della Repubblica resta nelle sue funzioni fino all’insediamento effettivo del nuovo presidente eletto”. Ma il presidente eletto non c’è e dunque il mandato di Kabila si perpetua nel tempo.
Una nazione ricca di risorse ma straziata dai conflitti etnici
Una situazione politica che fa da innesco all’espandersi delle rivolte e dei malumori un po’ in tutto il paese. La rivolta del Kasai ha già provocato diverse centinaia di morti e oltre 200mila sfollati. Ma non è l’unica. Di disordini e vera e propria guerra civile e etnica – molti dei militari scampati al massacro in Kasai, si sono salvati perché parlavano thsiluba, il dialetto locale – è attraversato il Katanga, nel sud del Paese, ma anche la fascia orientale con il Nord e il Sud Kivu, disordini che si spingono a Nord Est nell’Ituri. Regioni che non hanno pace da anni, sempre teatro di scontri e della prima guerra cosiddetta “continentale” che ha provocato più di 4 milioni di morti e coinvolto 7 Stati, tutti vogliosi di mettere le mani sulle immense ricchezze di Kinshasa. Ma non è tutto. Dove la guerra e le rivolte sono più violente e feroci, infatti, sono anche quelle più ricche di materie prime, di ogni tipo, tanto che la Repubblica democratica del Congo, da sempre, viene definita un “scandalo geologico”, che attira gli appetiti dei paesi limitrofi, delle multinazionali del settore e dei Paesi occidentali e non, come la Cina. Pechino, infatti, vanta una vasta presenza in tutto il paese, in particolare nelle zone minerarie: quelle di cobalto sono ormai di sua “proprietà”.
Un'emergenza che fa gioco al governo
I disordini, inoltre, fanno molto comodo a Kabila. L’emergenza gli consente di non indire elezioni e, quindi, di rimane al potere indisturbato. A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca. Sono in molti, dentro e fuori il Paese, che vedono la lunga mano del presidente dietro i disordini e le violenze. Provocazioni e intimidazioni che scatenano la rabbia degli oppositori, che hanno perso, perché deceduto a Bruxelles lo scorso febbraio, il loro leader indiscusso, Etiénne Tshisekedi, oppositore fin dai tempi del dittatore Mobutu, ma con la forza e la capacità di mediare da pari. Ma fino a quando Kabila sarà in grado di tenere le redini del Paese? Fino ad ora gli sforzi internazionali e anche quelli della Conferenza episcopale congolese – i vescovi si sono sempre spesi per la riconciliazione e hanno profuso ogni sforzo per la pace, senza astenersi dal condannare il regime – sono serviti a poco, Kabila non molla e il paese è ormai sull’orlo del baratro. Il rischio reale è che un’esplosione generalizzata e violenta scatenerebbe gli appetiti, mai sopiti, di molti Stati, con l’obiettivo di mettere le mani sulle ricchezze del Paese. Uno scenario, questo, che sarebbe devastante, non solo per il Congo, ma anche per tutta l’Africa Centrale.